Le bottiglie di pomodoro

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Come il sole iniziava a essere un tantino più clemente coi suoi dardi d’agosto, in tutti i rioni e le case di Lacco incominciava il rito delle “bottiglie di pomodoro”.

Anche il suono delle cicale cominciava a calare d’intensità dopo il ferragosto. Mentre le formiche, instancabili, continuavano il loro imperterrito lavoro di accumulo di cibo, in lunghe file indiane, per l’inverno.

Verso l’ultima decade di agosto iniziava l’arrivo dei bastimenti al pontile di Lacco provenienti da vari punti della Campania: da Mondragone a Pozzuoli portando sull’isola grosse quantità di merci che servivano come riserva per il periodo invernale. Dai meloni bianchi che venivano appesi in quadrati di rete o con funi ottenute con la rafia ai vari tipi di legumi. C’era lo strillone che girava per tutti i rioni del paese annunciando i differenti tipi di merce.

Camioncini arrivavano da località campane e trasportavano l’oro rosso: il pomodoro proveniente dall’entroterra, all’epoca orgoglio nazionale, uno dei simboli più amati ed apprezzati in tutto il mondo!

Questi mezzi portavano quintali di pomodori rossi: il più delle volte erano i cosiddetti “San Marzano” che sull’isola non si coltivavano perché richiedevano parecchia acqua.

Mia madre ne comperava alcune “sporte” e li mischiava con i pomodori che acquistava da Giannina sopra al Fango. Questa donna coltivava nel suo terreno: “e’cerasell” che erano molto più piccoli ma più densi di succo. Mischiando le due qualità otteneva una salsa abbondante e succosa.

“Fare le bottiglie” era un rito che si ripeteva ogni anno in tutte le famiglie, il lavoro anche se impegnativo era divertente perché riuniva intere famiglie. Come descritto in un altro dei miei racconti, noi ragazzi eravamo addetti alla pulizia delle bottiglie in riva al mare, logicamente quando il mare non era agitato.

“… Noi bambini dovevamo portare le bottiglie vuote in riva al mare per pulirle con sabbia e “vriccilli”. Agitando il tutto con l’acqua di mare le impurità presenti nelle bottiglie andavano via. Dove la salsa dell’anno precedente aveva formato delle incrostazioni adoperavamo rami di mirto. Le bottiglie erano preziose perché scarseggiavano: il più delle volte erano bottiglie vuote che mio padre portava in grossi sacchi di juta dalle navi quando sbarcava. Erano di colore verde scuro, rosso intenso, marrone, dalle forme più strane, quadrate, rettangolari, allungate ma tutte robuste e portavano scritte in tutte le lingue!”…

Il giorno precedente mia madre aveva lavato per bene i pomodori e li metteva ad asciugare in delle ceste avvolti in un vecchio lenzuolo assieme ai rami di basilico.

Al mattino seguente, di buon ora, iniziavano i lavori sul terrazzo di casa o nel “ciardiniello”.  Le mie sorelle si alternavano vicino alla manovella che faceva girare, a mano, la macchinetta producendo la salsa. Era uno spettacolo insolito ed esaltante vedere quella salsa rossa come il fuoco fuoriuscire dai buchi. Scendeva copiosa in una bagnarola di stagno o nelle tine di terracotta smaltate di verde, mentre i semi con le bucce proseguivano il loro tragitto dopo la spremitura, uscendo lateralmente. Molto spesso veniva fatta un’ulteriore passata, fino a quando non uscivano solo i semi. Questo procedimento durava ore perché i recipienti una volta riempiti bisognava svuotarli riempiendo le bottiglie dove c’erano già le foglie di basilico. Tutt’intorno c’era un profumo di pomodoro e un pungente aroma di basilico e origano. Con i pomodori di scarto veniva preparato la salsa per gli spaghetti alla “pizzaiola” per il pranzo del giorno.

In quest’occasione i grandi bevevano vino di “saccapanna” arricchito di fette di “percuochi”e a noi piccoli era concessa la gassosa conservata nel ghiaccio.

Quando le bottiglie erano tutte colme, mia madre si sedeva per terra e con le spalle appoggiate al muro procedeva alla chiusura di esse con una macchinetta di legno. I tappi di sughero venivano immersi nell’olio prima dell’uso e con un martello di legno si spingeva il tappo all’interno della macchinetta per farlo entrare nel collo della bottiglia. Una volta turate, uno spago ne completava la chiusura.

L’operazione più complicata era la bollitura delle bottiglie che venivano adagiate nelle “caulare” di rame, ogni famiglia ne possedeva una. Fra uno strato e l’altro delle bottiglie veniva messo un panno, in modo che durante la bollitura dell’acqua non urtassero fra di loro.

A fine lavoro, mentre mamma avviava il fuoco sotto la caldaia, noi ragazzi, tutti insieme, andavamo a lavarci a mare per un bagno rinfrescante e togliere i semi e gli schizzi di salsa che si erano appiccicati per tutto il corpo durante la giornata.

All’indomani, a fuoco spento, la soddisfazione più grande era di estrarre dalla caldaia le bottiglie tutte intere in modo che il lavoro del giorno prima non fosse stato vano!

Angelo detto “Angiulillo” per la sua statura.

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Angelo è un altro dei ragazzi del rione Ortola cresciuto all’ombra del complesso Rizzoli. Lo ricordo ragazzino svolgere il ruolo di raccattapalle nei campi da tennis e minigolf. Molti dei suoi compagni, in seguito, sono diventati maestri di tennis allenando generazioni di ragazzi ischitani qualcuno dei quali approdato sul continente nei circoli di tennis più esclusivi della Capitale. Angelo, più grandicello, entra come commissioniere al Regina Isabella.Era uno dei ragazzi di portineria preferiti dal portiere d’albergo Vittorio Ragona, per il suo impegno e velocità nello svolgimento dei suoi compiti. Più tardi trovò il suo spazio come bagnino e manutentore delle piscine termali nel Grand Hotel Augusto di Lacco Ameno, posto mantenuto fino all’età della pensione. Fin qui tutto normale: tutti noi che lo conosciamo sappiamo che c’è un’altra faccia di Angelo che lo rende unico, all’avanguardia, uno che ha anticipato i tempi. Molto spesso non è stato compreso, anzi sotto sotto guardato con ironia, ma lui imperterrito è andato avanti per la sua strada.Oggi è moda, tutti abbiamo scoperto il vantaggio dell’esercizio fisico: il moto, un modo per tenersi in forma, conosciuto col nome inglese di trekking. Scegliamo percorsi meno trafficati, più panoramici, per godere i benefici della natura che ci circonda, specialmente al mattino quando l’aria è più frizzante, facendo lunghe passeggiate in pineta, nei boschi o costeggiando il mare. Tutto bello e normale anzi salutare! Una ventina d’anni fa Angelo era l’unico che percorreva ogni giorno la bellissima passeggiata Lacco – Casamicciola, a seconda della disponibilità di tempo che aveva a causa degli impegni lavorativi e familiari. Tutti lo guardavano in maniera strana e molti, fra quelli che oggi percorrono lo stesso tratto, si chiedevano con ironia il motivo che lo spingesse a correre o a camminare. Un episodio che tempo fa fece scalpore nel paese: Angelo, da solo, senza il sostegno degli altri colleghi lavoratori, scese in piazza Pontile a Lacco Ameno a fare sciopero contro il datore di lavoro, non per suo interesse ma per i diritti degli altri dipendenti rischiando il licenziamento. Qualche anno fa ha portato a termine il percorso ambito da tanti pellegrini: il cammino di Santiago partendo da Pamplona, 800 km in 20 giorni con tutte le difficoltà del caso.Lui, così minuto, è riuscito a vincere il mutamento atmosferico delle stagioni. Oggi lo vediamo percorrere, a piedi, in tutti i periodi dell’anno, d’estate o d’inverno a torso nudo, in pantaloncini il tratto che da Lacco Ameno va a Baia Sorgeto per concedersi un bagno salutare. La temperatura può salire, può scendere, Angelo munito del suo zaino, d’estate, ombrellone e sdraio il tutto caricato sulle spalle, attraversa mezza isola per trovare il suo angolo di paradiso. Lo accompagna la sua immancabile transistor che annuncia il suo arrivo o il suo ritorno a casa.In questo periodo la baia è piena di bagnanti e il suo angolo preferito è occupato da turisti occasionali. Ha detto che ritornerà quando la calma e il silenzio regnerà di nuovo in Baia Sorgeto. Lui è sempre alla ricerca di angoli incontaminati, ha trovato uno spazio, in un luogo un poco più impervio ma altrettanto bello: la piccola insenatura della Pelara dove l’acqua del mare è limpida e la serenità regna sovrana. Lo vediamo passare, a piedi, per le nostre strade dell’isola. Procede a testa alta dando un calcio a tutte le chiacchiere, le beghe che affliggono ognuno di noi, incarnando il sogno di tutti che vorrebbero scendere dall’auto e camminare a fianco a lui:Vai Angelo, vengo anch’io!

Era il 17 luglio 1973

Il Re dell’Afganistan Mohammed Zahir Shah decise di venire a Ischia per godere di un periodo di cure e vacanza in completo relax.

Il Principe dell’Arabia Saudita che a fine anni ’60 era stato ospite dell’Albergo della Regina Isabella lo aveva spinto verso questa meta. Molti fra i lavoratori dell’albergo e delle terme si ricordavano di questo Principe perché era solito regalare oggetti di valore alle persone che entravano in contatto con lui. Il Principe saudita trascorse un periodo di cure nel mese di ottobre, di minore affluenza, così l’intero albergo e l’annesso stabilimento termale fu messo a sua disposizione.Re Mohamed Zahir Shah decise di sottoporsi anche lui ai trattamenti tanto decantati dal suo illustre Conoscente saudita.La Direzione e i reparti del complesso dell’Albergo della Regina Isabella con l’annesso stabilimento termale erano in grande fibrillazione per l’arrivo dell’augusto ospite che, con la sua venuta, avrebbe portato notorietà e prestigio alla struttura e all’isola d’Ischia. Il concierge Vittorio Ragona, già mesi prima, insieme alla segretaria del Sovrano, s’era messo in moto per organizzare il transfer via mare e aereo per il seguito di persone accompagnatrici da Napoli a Lacco Ameno. Una schiera di persone curò gli impianti e la disponibilità dell’intero piano riservato al Re e al suo entourage. L’office del piano che abitualmente serviva per il servizio di ristorazione fu arricchito con scaffali, punti di cottura e utensili per una cucina autonoma. Anche l’office del personale ai piani fu ampliato per renderlo indipendente dal resto della struttura. Un effluvio di spezie e profumi si spandeva per il piano trasportando l’albergo in un mondo da “Mille e una notte”. Il giardiniere, seguendo i suggerimenti del collaboratore del Sovrano, potò gli alberi secondo l’esigenza dell’Illustre Ospite per non ostacolare la totale vista del mare. Il segretario del Sovrano fece rimuovere alcune piante di agave perché il re non le riteneva di buon auspicio: diceva che portassero iella. Questa credenza era condivisa anche dal Direttore Generale: Avv. Leopoldo Serena. Si diceva che l’agave, al momento della fioritura vicina all’estinzione della pianta, portava male a chi abitasse in prossimità di essa. Era il 17 luglio 1973 il nome dell’isola d’Ischia correva nei notiziari, carta stampata, TV e cine giornali di tutto il mondo. Re Mohamed Zahir Shah era appena sbarcato con il suo seguito, guardie del corpo e familiari all’approdo dell’Hotel Sporting, quando giunse la notizia che il cugino Mohammed Daoud Khan aveva messo in atto, in patria, un colpo di stato mentre Zahir Shah era in viaggio per l’isola d’Ischia!Da “The reader view of Wikipedia”:The 1973 Afghan coup d’etat (internally known as Coup of July 17 (Dari: کودتای ۲۶ سرطان Coup of 26th Saratan, Pashto: چنګاښ د ۲۶ مې كودتا Coup of 26th Choongakh)) was the relatively bloodless overthrow of King Mohammed Zahir Shah on 17 July 1973 and the establishment of the Republic of Afghanistan.[2] The non-violent coup[3] was executed by the then-Army commander and royal Prince, Mohammed Daoud Khan who led forces in Kabul along with then-chief of staff General Abdul Karim Mustaghni to overthrow the monarchy while the King was abroad in Ischia, Italy. Daoud Khan was assisted by leftist Army officers and civil servants from the Parcham faction of the PDPA, including Air Force colonel Abdul Qadir. King Zahir Shah decided not to retaliate and he formally abdicated on August 24, remaining in Italy in exile. More than two centuries of royal rule (since the founding of the Durrani Empire in 1747) ended. Da “The reader view of Wikipedia”:Il colpo di stato afghano del 1973 (noto internamente come colpo di stato del 17 luglio (Dari: کودتای ۲۶ سرطان Colpo di Stato del 26° Saratan, Pashto: چنګاښ د ۲۶ مې كودتا Colpo di Stato del 26° Choongakh)) fu il rovesciamento relativamente incruento del re Mohammed Zahir Shah il 17 luglio 1973 e l’istituzione della Repubblica dell’Afghanistan.[2] Il colpo di stato non violento[3] fu eseguito dall’allora comandante dell’esercito e principe reale, Mohammed Daoud Khan che guidò le forze a Kabul insieme all’allora capo di stato maggiore generale Abdul Karim Mustaghni per rovesciare la monarchia mentre il re era all’estero a Ischia , Italia. Daoud Khan è stato assistito da ufficiali dell’esercito di sinistra e funzionari della fazione Parcham del PDPA, tra cui il colonnello dell’Air Force Abdul Qadir. Re Zahir Shah decise di non vendicarsi e il 24 agosto abdicò formalmente, rimanendo in esilio in Italia. Finirono più di due secoli di governo reale (dalla fondazione dell’Impero Durrani nel 1747).

Ischia teatro di amori e intrighi

Negli anni ’50 un vento nuovo avvolge l’isola con nuovi amori e avventure che spesso sfociavano in unioni durature. Va ricordato il matrimonio che portò l’isola d’Ischia sulla ribalta internazionale attirando sullo “scoglio” la stampa da tutto il mondo, paparazzi e cineoperatori: le nozze fra Emily, nipote del Primo Ministro inglese Sir Anthony Eden e un aitante marinaio, Giovanni Borrelli di Casamicciola. L’isola diventò meta di personaggi di spicco del bel mondo britannico. Sir William Walton prestigioso e creativo musicista inglese decide di stabilirsi, con la sua giovane e bella moglie argentina Susanna, fra le colline di Zaro, a Forio. La pace, il verde, il clima ispirano al giovane compositore pezzi memorabili. Con la collaborazione dell’Architetto Russell Page viene realizzato un giardino che col tempo si riempirà di fiori e piante che arrivano da tutto il mondo: i Giardini della Mortella che ottennero prestigiosi riconoscimenti. Sir Laurence Olivier, Camilla Parker Bowles ed altri famosi personaggi del jet set inglese sono assidui frequentatori dell’isola e soggiornano nelle ville del complesso la Mortella. Con la morte del marito, Lady Susanna decide di aprire il suo complesso al pubblico e realizza un anfiteatro naturale nella vasta proprietà dove si esibiscono giovani musicisti da tutto il mondo. L’ammirevole fondazione William Walton aiuta, con borse di studio, giovani musicisti italiani e stranieri ma anche giovani tirocinanti nel settore del giardinaggio.In quegli anni, mi raccontava Vittorio Ragona, portiere del Regina Isabella, anche Enrico Mattei era assiduo frequentatore del Regina Isabella e veniva per un periodo di cura alle terme. Durante uno di questi soggiorni arrivò anche Reza Pahlavi, il giovane scià di Persia, per salutare il suo amico con cui aveva stretti rapporti d’affari. Si dice che Mattei per legare maggiormente lo Scià all’Italia e all’Europa avrebbe promosso un incontro fra quest’ultimo e Maria Gabriella di Savoia: Ischia ancora teatro di amori e intrighi. Purtroppo Cupido non scoccò la freccia. Maria Gabriella confessò in seguito che sarebbe stato troppo difficile per lei cambiare mentalità e religione. In quegli anni molti principi erano di casa sull’isola fra cui Enrico D’Assia, cugino di Maria Gabriella di Savoia.Quest’ultima assieme alla sorella furono molte volte ospiti presso il cugino Principe D’Assia nella villa Falconara in Forio d’Ischia. Mi confidava Ragona che Rizzoli mise a disposizione dello Scià il suo esclusivo yacht “Sereno” per portare il sovrano di Persia da Ischia a Pozzuoli. Uscito dal porto di sera, era buio, durante la navigazione lo yacht incrociò sulla sua rotta un’imbarcazione con luci spente. Lo scontro fu inevitabile e anche il Sereno ebbe dei danni ma in compenso l’illustre ospite arrivò sano e salvo a Pozzuoli. La piccola barca ebbe la peggio con l’affondamento e lo Scià pagò i danni. L’accaduto fu messo a tacere. Il monopolio dello sfruttamento del petrolio era in mano alle compagnie petrolifere multinazionali (le sette sorelle) angloamericane, le quali vedevano in Enrico Mattei un pericoloso concorrente. Egli infatti aveva stretto accordi per lo sfruttamento di giacimenti direttamente con gli Stati produttori. L’ideatore dell’ENI anziché dividere fifty-fifty, come praticato dagli angloamericani, riconosceva ai paesi produttori il 75%, ben 25% in più. Il 27 ottobre del 1962 Mattei morì in un incidente aereo. Con lui naufragò il sogno italiano di essere protagonista nel mercato petrolifero mondiale! Non ci è stata mai chiarezza su questa sciagura.

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Young Camilla Parker Bowles

Ogni rione di Lacco aveva i suoi personaggi particolari.

Quando andavo dai miei cugini nel rione di Laccodisopra, ricordo che c’erano tante figure che mi sono rimaste impresse. “Pezzuottl” che quando passava davanti alla chiesa dell’Assunta non smetteva mai di mandare baci in direzione della Madonna anche se la chiesa era chiusa. Poco distante dalla sua abitazione c’era la baracca di Franciscantonio che aveva una giacca tutta rattoppata e non si capiva la tinta originale di che colore fosse. Assieme a lui vivevano le due sorelle anziane conosciute come “R’tona” e “Pirchiolona”, anche loro non sposate. L’accrescitivo vicino ai nomi fu dovuto al fatto che le due erano rotonde come le donne di “Botero” ma in bianco e nero. Queste due sorelle e il fratello passavano tutti i giorni sotto casa mia per la strada che portava “Sopramezzavia” dove avevano un piccolo appezzamento di terreno e vi trascorrevano l’intera giornata. Oltre a curare la campagna accudivano gli animali domestici. I ragazzi del rione le avevano prese di mira. Le vecchie sorelle rimaste zitelle subivano i dispetti dei bambini che puntualmente di sera facevano una scaricata di pietre sopra al tetto di zinco della loro baracca. A me queste due donne stavano simpatiche perché avevano un viso aperto e sorridente, specialmente la più giovane delle due. Non capivo perché i ragazzi le perseguitassero con dispetti ed epiteti.Fra altri personaggi del rione c’era Melchisedecco detto “Marcsalett u poeta” che componeva poesie. Pensandoci bene, a quell’epoca, c’erano tantissimi nomi provenienti dall’antico testamento: Melchisedecco, Davide, Isacco, Adamo, Baldassarre, Sara, Ester e altri. Nell’Ortola, a centro del rione, c’era la baracca di “Rucchino” che riparava scarpe, il suo locale era il posto dove si radunavano i giovani e i ragazzi che erano attratti maggiormente dai racconti di “Rafael a moccia”, all’epoca non c’era televisione. Raffaele a seguito di una caduta si ruppe una gamba e il medico anziché rimetterla diritta la piazzò col piede aperto verso destra, così il povero Raffaele fu costretto a camminare claudicante con l’aiuto di un bastone. In compenso il malcapitato conosceva a memoria il poema cavalleresco dell’Orlando furioso. I ragazzi erano affascinati dalle storie di Raffaele che era considerato ”istruito”. La sera prima di rientrare i ragazzi del rione accorrevano numerosi per ascoltare i suoi racconti. Un giorno i ragazzi erano assorti a sentire la storia del personaggio Gano di Maganza, il traditore che svelò ai saraceni il segreto di come sconfiggere Orlando che tornava dalla Spagna. In quel momento entrò Salvatore Monti che chiese di ripetere la storia di Cane di Magonza; anzicchè dire Gano disse Cane e da allora “Rafael a moccia” gli appioppò il soprannome di “Can’e magonz” e tutti i compagni da quel momento lo chiamarono così. Questo appellativo è rimasto ed è diventato quasi un nome d’arte e lui non se ne dispiace. Con l’avvento di Rizzoli anche lui trovò una collocazione nel complesso creato dal Commendatore: massaggiatore. S’impegnò nel suo lavoro fino a diventare uno dei più bravi. Alle Terme del Regina Isabella divenne molto famoso: pazienti facoltosi, personaggi del mondo della finanza, della politica, del cinema che frequentavano assiduamente le Terme sono passati per le mani di Salvatore. Lui era molto abile nel capire dove il paziente avesse complicazioni, era talmente bravo che i clienti dopo il massaggio si sentivano rinnovati. Persino Gianni Agnelli lo chiamò a sé al Sestriere nel periodo invernale alla chiusura delle Terme Regina Isabella. Gli Agnelli possedevano la stazione sciistica Sestriere da loro creata fino a farla diventare una delle località alpine più note al mondo. Era frequentata dalla storica famiglia piemontese, tutti i componenti del clan Agnelli ricorrevano alle mani sapienti del nostro Salvatore “Can’e maconz”. Ancora oggi quando approdono in uno dei porti dell’isola passano a salutarlo, persino Lapo Elkan ricorre ancora alle sue cure.C’erano persone anziane che conoscevano la bibbia a memoria. Quando con la famiglia ci spostammo alla nuova casa del Capitello, vicino a noi abitava “zi’ Vicenzin” che era il fratello di mio nonno Giuseppe “u cacciatore”. Mio zio, oltre ad essere un fervente cattolico, conosceva la bibbia a memoria e molto spesso ci raccontava le storie dell’Antico Testamento come Giuseppe venduto dai fratelli, il Figliuol Prodigo, le 10 piaghe che Dio inflisse agli Egiziani per aver impedito agli Ebrei di lasciare l’Egitto, il personaggio di Mosè e tanti altri che catturavano la nostra fantasia e rimanevamo stregati dai racconti e per come sapeva intrecciarli. Ma anche zi Vicenzin aveva il suo lato debole: era goloso. I miei zii raccontavano che a quell’epoca, di venerdì, era proibito mangiare carne. Quel venerdì a casa di zi Vicenzin si mangiava pasta e fagioli che erano stati messi a bagno già la sera precedente per ammorbidirli, per arricchire la pietanza fu messo assieme ai fagioli una bella cotica di maiale ancora coi peli sopra. Arrivata l’ora del pranzo i familiari si resero conto che era venerdì e non si poteva far peccato. Si decise di dare quel boccone prelibato al gatto ma zi’Vicìnzin fu più lesto afferrò la cotica dal coccio e la portò velocemente alla bocca esclamando: “ci along’a jiatt…?!!!”

Com’era viva Casamicciola!

Raffaele u’ carrettiere era uno dei pochi ad aver un mezzo di trasporto per uso comune. Esistevano le carrozze che portavano le persone a spasso. Ricordo che quando mio padre tornava da uno dei suoi lunghi viaggi, la domenica sera d’estate, portava tutta la famiglia a prendere un gelato da Calise con la carrozzella di Fabrizio a Casamicciola e poi facevamo ritorno a piedi. Com’era viva Casamicciola! Per noi bambini di Lacco andare a Casamicciola era come partecipare a un avvenimento. Appena arrivavi c’era la statua del Re Vittorio Emanuele, imponente che dominava la piazza, ad accoglierti. Quel monumento così austero metteva soggezione. La piazza era gremita di carrozzelle con cavalli, c’erano numerosi taxi (a Lacco ce n’erano appena due) molti dei quali erano decapottabili con tende colorate a strisce bianche e blu che aspettavano i turisti dalle imbarcazioni. Anche le carrozzelle avevano un tendone bianco, a cupola, per proteggere i passeggeri dal sole durante le ore calde del giorno. A me piaceva andare con la carrozzella di Fabrizio perché mi faceva sedere a “cassetta” di fianco a lui che teneva le redini del cavallo. Stare seduto a quel posto mi dava la sensazione di guidare il cavallo. Casamicciola era tutta in fermento: la gente era vestita con abiti colorati ed eleganti. Ricordo che gli autisti e i cocchieri avevano tutti il viso bruciato dal sole per le lunghe ore alla guida. C’erano tavolini colorati disseminati in mezzo alla piazza con turisti seduti in comode sedie. Addirittura in un area così circoscritta c’erano cinque bar, uno vicino all’altro. Attaccato al “Calise” c’era un altro bar che doveva combattere non poco la sua concorrenza perché i prodotti di pasticceria del primo erano conosciuti in tutta la Campania e oltre. Oltre ai bagni pubblici, gestiti da “Giuannella” sempre con la scopa in mano intenta a pulire, c’era una piazzola dove tantissimi villeggianti praticavano il pattinaggio a rotelle. Lo spazio era coperto da una superficie levigata: sembrava che i pattinatori di tutte le età scivolassero velocemente sul suolo senza cadere facendo a volte delle acrobazie. Poco distante c’era uno stabilimento balneare dove fu eletta una delle più belle “Miss Italia” degli anni 50. Precisamente nell’estate del 1959: Marisa Iossa alta 1,77, bellissima ragazza napoletana, conquistò il titolo a Casamicciola. Tutta la stampa dell’epoca parlava dello straordinario evento e il cinegiornale diffondeva la notizia proiettando l’immagine dell’isola d’Ischia in tutte le sale cinematografiche d’Italia. Buon sangue non mente, anche la figlia Roberta Capua conquistò l’ambito titolo nel 1986.In compagnia dei miei genitori la serata si concludeva sempre con una pizza spettacolare al ristorante Ciritiello che era ubicato in un lungo giardino coperto da un pergolato di uva e gelsomino poco lontano dalla piazza. La pizza era enorme, mangiarla a tavolino, anziché piegata con l’olio bollente che fuoriusciva, era un’occasione che capitava solo quelle poche volte che mio padre era in famiglia.Più tardi, quando mi trasferii con la famiglia al Capitello, passava Raffaele “u ciucciar”, con la sua carrozzella trainata da un asino, che andava al porto di Casamicciola dove arrivava “u motor” (così venivano chiamate le imbarcazioni) che oltre i passeggeri trasportava anche merce varia. Raffaele ci portava con sé quando doveva caricare i pacchi di sale per “Mattia u tabaccar”; noi pur di fare una passeggiata sulla carretta eravamo disposti anche a caricare la merce sulla carrozzella. Il “ciuccio” di Raffaele, al ritorno, doveva trasportare noi, i pacchi e il padrone perciò camminava piuttosto lento e il padrone, per spronarlo ad andar più veloce, con la bacchetta rivolta verso il cielo gridava: harrr….. harrr….. ma “u ciuccio” più di tanto non riusciva ad essere veloce. Un giorno “on Giuann u salese” che aveva un negozio di casalinghi a piazza Santa Restituta gli disse: “Rafaè, se sei capace di andare fino al “motore” senza gridare harrr….. al ciuccio, ti pago il doppio la commissione”. Il cocchiere accettò la sfida, fino al Capitello si guardò bene dal gridare harr… all’asino ma, arrivato all’altezza di Villa Svizzera, mal sopportando il passo lento del suo animale gridò: “harrr…..harrr e vaffancul…..” e perse la scommessa! www.peppinodesiano.it

Del maiale non si butta niente

Nel periodo in cui abitavo a Mezzavia, ricordo che ogni famiglia aveva un secchio dove veniva raccolto “il brodo” che consisteva nella prima lavatura dei piatti e delle pentole sporche oppure l’acqua della pasta o del riso. Non c’era saponina, mia madre e le mie sorelle pulivano i piatti con una buccia di limone spremuto oppure con un pezzo di pane, prima di passarli nell’acqua. Poi arrivava Amedeo per recuperare il liquido con cui preparava “u pastone” per i maiali che allevava.

All’inizio dell’inverno, prima di andare a scuola, ci recavamo in gruppo in una casa contadina per assistere al rito tanto atteso da noi piccoli: l’uccisione dell’amato maiale che rappresentava ricchezza e sopravvivenza per un anno intero per le famiglie. Vigeva il detto “del maiale non si butta niente”, difatti Lenuccia la moglie di Amedeo e gli altri componenti della famiglia erano molto abili a preparare ventresche, salami, salsicce, lardo, capocollo, sugna e altre specialità che poi vendevano in occasione delle feste. Alle famiglie come la nostra, che aveva collaborato a conservare il brodo, veniva riconosciuto un litro di sangue per il sanguinaccio, della sugna, cotiche e qualche salsiccia e “costatelle” durante il periodo natalizio. Mia sorella Rosanna era la specialista del sanguinaccio e noi più piccoli, per renderlo più personalizzato, raccoglievamo i pinoli dalle pigne cadute dagli alberi di pini per aggiungerle al prezioso preparato. Anche la pasticceria Calise di Casamicciola vendeva porzioni di sanguinaccio in bicchierini di carta. A differenza di quello confezionato in casa, il sapore era più di cioccolato aromatizzato con tante spezie.

Amedeo era molto abile ad ammazzare col coltello il maiale e la sua opera era molto richiesta in paese. Con lui si era sicuri che l’animale cresciuto con affetto, apprezzato per la sua carne, non soffrisse al momento del distacco.  Capitava, a volte, che il maiale sfuggisse ai proprietari, come se avesse capito cosa l’aspettava e scappava via. Una mattina un maiale che doveva andare al macello fuoriuscì dal recinto e andò a finire nella spiaggia del “Fungo”. Puntò direttamente verso il mare, per fortuna c’erano le reti messe ad asciugare lunga la spiaggia dove l’animale si impigliò e dovettero lavorare non poco per liberarlo.  La stessa cosa capitò con un bue che era condotto al macello: un colpo male assestato dal macellaio, anzichè puntare sul centro della fronte, colpì il bue su di un lato della testa. L’animale si divincolò dai ganci e schizzò in mezzo alla strada scappando verso le “Stufe di San Lorenzo”. I passanti atterriti scappavano in tutte le direzioni, per fortuna la pavimentazione stradale composta da enormi basoli fecero scivolare rovinosamente l’animale che venne facilmente catturato dal macellaio.

Un altro ricordo nitido della mia infanzia era la macelleria del paese. Era un locale molto alto e ampio con un soffitto a volta.  Al centro del negozio troneggiava il bancone dove operava “don Cesare”. Egli era pacioso e rubicondo, sempre sorridente. Era una festa vedere tanta ricchezza di carne in bella mostra fra rami di rosmarino e lauro. La domenica mia madre mi mandava a prendere la carne, le solite fettine di “colarda” con cui faceva gli involtini, ripieni di aglio, prezzemolo e formaggio vecchio grattugiato che arricchivano la salsa di pomodoro. A fine mese quando arrivava lo stipendio di mio padre saldava il debito.  Nel periodo natalizio l’esposizione era ancora più ricca perché il maiale era dominante. I ganci erano tutti impegnati: dalla trippa alle pezze di lardo, dalla sugna contenuta in una vescica a mo’ di pallone alla ventresca ricca di spezie. Dietro al banco erano sistemati i pezzi di prosciutto, “tracchiulelle”,  costolette, cotiche arrotolate, mentre  di fianco al banco c’era un trionfo di salsicce che due ganci non riuscivano a reggere tutte. Don Cesare e suo padre lavoravano tutta la notte per prepararle. Le salsicce di don Cesare erano le migliori di tutto il paese: l’impasto veniva bagnato col vino bianco della sua cantina, ne preparava delle altre con spezie varie che  richiamavano acquirenti da tutta l’isola. Venivano richieste in gran numero anche per i matrimoni o cene fra amici, oltre ad essere consumate nelle famiglie.

Sicuramente chi apprezzava di più le salsicce di don Cesare era Sarina che quatto quatto, come una gatta, si avvicinava al lato del banco dove erano sistemate.  Con molta naturalezza iniziava a svuotarle crude, ancora fresche, deglutendo il contenuto con la gioia e il sorriso di don Cesare che era estasiato a guardarla mentre lei, con uno sguardo malizioso, continuava ad appagare il suo appetito!

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Ischitani brava gente

Molto spesso ci lamentiamo che noi Ischitani siamo un popolo litigioso e rancoroso. Sarà vero perché in varie circostanze ci è stato rinfacciato da più parti. Voglio raccontare un paio di episodi che ho vissuto direttamente o indirettamente. Venivo da un massacrante tour di tre giorni a Milano, trascorsi all’interno del padiglione della fiera del turismo, di febbraio. Ero molto caricato perché in passato avevo partecipato a questa kermesse in rappresentanza di compagnie alberghiere con cui collaboravo. Questa volta, fresco dall’abilitazione di “Direttore d’Agenzia Viaggi” e dalla realizzazione di una struttura turistica di proprietà, ero motivato doppiamente a stringere contatti nuovi e lanciar il mio prodotto nel circuito turistico. L’entusiasmo era talmente forte che seguivo ogni avvenimento senza perdere nessuno evento, compreso i seminari che si tenevano all’interno del padiglione della fiera. Alla fine dei tre giorni, soddisfatto del lavoro svolto, decisi di partire la sera stessa. Per fortuna trovai un posto disponibile in una cuccetta così salii sul treno alla volta di Napoli. Capitai in uno scompartimento con altri passeggeri che scendevano alcuni a Roma e altri che proseguivano oltre Napoli. La cuccetta era surriscaldata, il russare di qualche compagno di viaggio rese la nottata lunghissima. Superata Bologna, riuscii a chiudere gli occhi. La gola secca e la necessità di andare in bagno mi costrinsero a cercare una bottiglia d’acqua minerale. Tornato in cabina, trovai gli occupanti dello scomparto svegli e in stato di allerta perché nella cabina adiacente alla nostra era scomparso il beautycase di una viaggiatrice che aveva custodito in esso alcuni preziosi e documenti. Dopo varie ricerche sul treno, il beauty fu ritrovato intatto in uno dei raccoglitori di rifiuti lungo il corridoio. Il viaggio fu abbastanza movimentato e non riuscii a riposare per le restanti ore. Superata la stazione di Roma Termini, lo stress accumulato nei tre giorni passati in fiera a Milano incominciò a farsi sentire. Nel giro di poco tempo gli occhi cominciarono ad offuscarsi e un dolore martellante invase la mia testa. Così appena passò il carrello delle bibite presi un caffè caldo con la speranza che m’avrebbe fatto sentire meglio. Anziché risvegliarmi, cominciai ad avvertire un malessere per tutto il corpo con brividi di freddo. La testa mi pulsava ancora di più, avvertivo nausea, sembrava che dovessi rigettare da un momento all’altro. Qualcuno che era salito sul treno a Roma notò lo stato pietoso in cui mi trovavo, mi offrì una camomilla calda che mi face stare meglio fino a Napoli. Arrivato in stazione con la testa che mi girava, riuscii a raccogliere le mie cose e raggiungere lo stazionamento dei taxi per il molo Beverello. Davanti alla fermata dei taxi trovai quel passeggero del treno che m’aveva offerto la bevanda calda, anche lui doveva andare al molo e così facemmo il viaggio assieme. Arrivati allo scalo marittimo pagai il taxi e questo signore, viste le mie condizioni fisiche, mi tolse il borsone dalle spalle per aiutarmi nel trasporto, volle per forza pagare i biglietti dell’aliscafo. Nel frattempo, avvisai i miei con una telefonata dell’ora dell’arrivo a Ischia per venire a prendermi al porto. Il nuovo amico restò seduto nella stessa fila a distanza di un posto. Sul battello la nausea cominciò ad assalirmi di nuovo e, anche se c’era mare calmo, lo stomaco mi dava fastidio fino al vomito, cosa strana mai capitata prima. Ebbi un’assistenza costante e avvertivo fortemente la presenza di questo buon samaritano. Si presentò, capii che era di Barano ma non seguivo quello che diceva perché ero in uno stato di sofferenza e sonnolenza, sembrava d’essere in apnea. Mi accompagnò fino all’uscita dell’aliscafo, mi portò il borsone fino alla scaletta, allo sbarco c’erano i miei ad attendermi. Quel signore si dileguò, non ebbi nemmeno la possibilità di presentarlo ai miei, ringraziarlo e capire chi fosse. Lo so che ognuno avrebbe fatto la stessa cosa ma intanto fu un Ischitano ad offrirmi tutta quella assistenza. Una persona che io non avevo mai visto prima per cui mi dispiace che il mio stato confusionale non mi avesse consentito un adeguato ringraziamento. E’ anche capitato che tanti turisti durante il soggiorno abbiano smarrito il porta moneta che è stato puntualmente restituito loro intatto. Un episodio simile, molto conosciuto nel paese di Lacco Ameno, capitò ad una turista tedesca che soggiornava in un noto albergo del paese. La cliente, arrivata nel suo hotel abituale, sentendosi sicura, lasciò i suoi preziosi in camera non depositandoli nella cassetta di sicurezza che l’albergo metteva a disposizione gratuita degli ospiti. Dopo qualche giorno scomparvero gli oggetti d’oro dalla sua camera. Il personale dell’albergo era lo stesso che accudiva la turista da tanti anni. I sospettati erano tanti, sia la direzione dell’albergo che la cliente sporsero denuncia. La signora continuò il suo soggiorno e tornò in Germania senza i suoi gioielli. Molti di essi erano ricordi tramandati da genitori e da antenati. A differenza degli altri commiati di fine vacanza, questa volta la partenza fu più triste. Durante l’anno scolastico, uno studente del “Meccanico Navale”, mentre giocava a palla con altri amici, non controllò il tiro e la palla andò a finire in un cespuglio nello spazio antistante l’Istituto. Un grosso pacco di colore oro sgargiante un po’ sbiadito, nascosto fra le piante, attirò la sua attenzione, chiamò gli altri compagni ed insieme aprirono l’involucro. Con loro grande sorpresa e meraviglia sembrava d’aver trovato lo scrigno dei pirati come nei racconti d’avventura. In effetti oltre a una grande quantità di collanine, bracciali, anelli c’erano anche monete e piccoli lingotti d’oro. Denunciarono il tutto ai carabinieri che contattarono la direzione dell’albergo e la turista tedesca che si precipitò sull’isola per ritirare i suoi preziosi che ormai non sperava più di recuperare. La signora lasciò un lauto riconoscimento al ragazzo che aveva trovato, nascosto in un folto cespuglio, il suo “tesoro”! www.peppinodesiano.it

Totonno “u tabaccar”

La tabaccheria di “Totonno” era nel centro del paese, attuale corso A. Rizzoli. Di bar ce n’erano pochi e posti dove passare le serate d’inverno scarseggiavano, la TV non esisteva ancora. In uno dei locali della tabaccheria c’erano un paio di biliardini meglio conosciuti come “calcio balilla”. Qui si rotrovava tutta la gioventù del posto, specialmente ragazzi. La partita di calcio domenicale veniva commentata minuto per minuto per tutta la settimana, per non parlare degli incontri/scontri delle squadre dell’isola.

Nel locale prendevano vita tutte le manifestazioni del paese. Si faceva politica, si organizzavano comitati per la festa patronale, la sera i gruppi di ragazzi erano talmente numerosi che anche la strada antistante il negozio era gremita.

Fra questi c’erano studenti che frequentavano il nautico perché gli indirizzi scolastici erano limitati. C’era l’Istituto nautico a Procida e il liceo classico a Ischia. Per altri indirizzi ci si doveva spostare in terraferma. Le disponibilità economiche scarseggiavano e parecchi andavano in seminario per studiare. Totonno e i suoi fratelli erano fra i pochi ragazzi del paese ad aver studiato.  Aveva conseguito la maturità magistrale ed era molto bravo a comporre poesie e a scrivere, fino a diventare “don Antonio” da grande.

Uomo di cultura, anziché insegnare è stato sempre dietro al banco dell’attività di famiglia. Per la scomparsa prematura di un giovane o di una personalità del posto, veniva chiamato Totonno anche per “tenere un discorso” o un panegirico in ricorrenze speciali. Molte persone si recavano da lui per farsi scrivere lettere importanti o semplici lettere di corrispondenza fra familiari anziani e figli che navigavano o vivevano all’estero.

Il negozio, oltre al sale e tabacchi, vendeva l’occorrente per la scuola: proprio da lui, noi ragazzi di Lacco acquistavamo le prime penne “biro” il cui inchiostro puntualmente col caldo fuoriusciva dall’astuccio e imbrattava quaderni, libri e anche i pochi cenci che indossavamo.

Anche Vincenzo, mio cugino, meglio conosciuto come “wagnel” aquistava i pennini da Totonno. Già piccolissimo sprizzava simpatia da tutti i pori anche perchè era molto minuto. Un pomeriggio, uscito dal doposcuola, entrò nel negozio e fu subito circondato dai ragazzi più grandi. In un battibaleno lo alzarono di peso sul bancone e gli intimarono di recitare la poesia “Pianto antico” di Giosuè Carducci che lui conosceva bene. Come contropartita, Vincenzo chiese uno dei cartoni che stavano dietro al banco. Appena recitata la poesia saltò giù, afferrò un pacco vuoto che aveva adocchiato e scappò via. Con sua grande sorpresa trovò nel contenitore dei soldi di carta strappati e delle monete. Felice della buona sorte, corse a casa e senza farsi vedere dai familiari andò a nascondere lo scatolo fra “i pennicill”. Non stava nei suoi panni, aveva i soldi per comperare i colori più belli e caramelle a volontà. Un giorno, tornato dalla scuola, andò dietro la casa per recuperare qualche soldo dal cartone che purtroppo era sparito. Il povero Vincenzo, non trovando il pacco, rimosse tutti “e pennecill” ma senza alcun risultato utile. Qualcuno, accortosi della disponibilità di soldi che aveva, gli aveva fregato la scatola.

Totonno, dalla sua postazione, ammirava tutte le ragazze che passavano per strada e dovevano necessariamente transitare davanti al negozio, specialmente le ragazze di Mezzavia. Lui era galante con tutte, ad ognuna dedicava una poesia. Le ragazze erano attratte perché, oltre ai versi di Totonno, erano stimolate dagli sguardi d’ammirazione dei giovanotti del posto sempre numerosi nel locale.

Oltre a tornei di calcio, in “tabaccheria” si organizzava anche teatro e Totonno era bravissimo anche come attore.

Nel palazzo scolastico Principe di Piemonte ogni anno il 21 novembre si svolgeva la festa dell’albero. Si piantava un albero in un’aiuola che si trovava alle spalle dell’edificio. Questo momento era molto sentito dai ragazzi. Di fianco all’aiuola c’era un padiglione che fungeva da palestra coperta: in questa sala Totonno col suo gruppo di amici facevano teatro. Una scena rimasta impressa nella mente di tutti i lacchesi era quella in cui doveva improvvisare una caduta gridando con una mano alla nuca: l’occipite!…l’occipite…! La scena fu talmente realistica che la parola “occipite” entrò nell’uso comune. Fino ad allora nessun in paese conosceva quella parola, né il significato di essa.

Uno dei personaggi indimenticabili per interpretare le macchiette era Peppino “e sciusciell” che aveva un accento nasale. Quando appariva lui sulla scena il pubblico andava in delirio. Ancora oggi viene ricordato per l’esilarante macchietta “a cing pezz” e “chi è che bussa al mio convento”. L’affluenza di pubblico era talmente numerosa che i posti a sedere non bastavano più, molti restavano all’impiedi.

La preoccupazione maggiore da parte di Fraticelli, proprietario del cinema Italia a Casamicciola, era che ogni domenica vedeva diminuire il flusso di pubblico. Oltre agli spettatori lacchesi cominciavano a venir meno anche quelli di Casamicciola. Allora una banda di “disturbatori” provenienti da Casamicciola si presentava alla palestra della scuola di domenica.

Molto spesso, durante lo svolgimento dello spettacolo teatrale, questo gruppo cominciava a dar fastidio e a interrompere lo spettacolo con critiche ed epiteti volgari verso gli attori. Puntualmente questi scendevano dal palcoscenico per darsele di santa ragione con gli intrusi. Uno spettacolo previsto nello spettacolo. Così si concludeva la commedia!

ENZO MAZZELLA: Ischia Giardino d’Europa

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Ricordo quando giovanissimo, coi miei coetanei, andavamo ad assistere a qualche partita di calcio “al Rispoli”: dovevamo fare un lungo tratto a piedi e passare attraverso le verdeggianti pinete che all’epoca erano chiuse, circondate da muri e filo spinato. Come di consueto, dopo la partita scavalcavamo i muri di recinsione e ci immettevamo in quel luogo magico, rimasto intatto nei secoli, per raccogliere “le sorbe pelose” (corbezzoli). Allora fantasticavo con la mente in quella natura selvaggia e spontanea pensando ai tempi remoti quando i primi navigatori greci poi quelli romani solcavano il mare antistante l’isola d’Ischia. Immaginavo l’incanto e lo spavento quando i vulcani ruggivano ed eruttavano lapilli e lava incandescente e mettevano in fuga i pochi abitanti e i naviganti di passaggio, per non parlare dei terremoti che affliggevano l’isola. Dopo l’Iliade e l’Odissea, poemi studiati e approfonditi col nostro professore don Matteo Romano, ho sempre immaginato l’isola d’Ischia al centro delle avventure più entusiasmanti. Un altro dei miei poemi preferiti, da ragazzo, fu la storia di Ben-Hur che, catturato dai Romani, venne reso schiavo e rematore sulle galee. Allora sognavo ad occhi aperti gli scontri coi pirati che attaccavano la nave e Ben-Hur che salvava da morte certa il Tribuno Quinto Arrio. Il tutto si svolgeva davanti alla nostra isola, nello specchio d’acqua antistante “Punta Molino”.Nei secoli molte esplosioni vulcaniche hanno sconvolto e modificato l’intera isola fino all’ultima del 1303. Il magma si è raffreddato e ha dato origine a dei luoghi unici prospicienti sul mare con panorami mozzafiato. Ferdinando II di Borbone pensò bene di piantare pini, nell’humus fertile dei materiali vulcanici. Queste conifere negli anni coprirono l’intera area raggiungendo altezze tali da far apparire, visto dall’alto, l’intero paese coperto da una cupola verde gigantesca. Tale spettacolo lo si poteva godere allorquando, arrivando da Casamicciola oltrepassato la località Castiglione, davanti agli occhi si presentava una distesa verdeggiante uniforme di pini che dal porto arrivava a Ischia Ponte con lo sfondo del Castello Aragonese. Col tempo quei luoghi accessibili solo a pochi privilegiati sono stati resi fruibili a tutta la popolazione. Ognuno può fare lunghe passeggiate, godere l’ombra degli alberi, praticare trekking in percorsi illimitati e liberi dal traffico Questo progetto è stato realizzato grazie all’impegno e intraprendenza del sindaco Enzo Mazzella che coniò lo slogan: Ischia Giardino d’Europa. La sua figura mi ha sempre affascinato attraverso i ricordi di Vincenzo Sasso, suo coetaneo e suo amico sincero fin dai banchi delle scuole elementari. Già da piccolo, a scuola, Enzo si distingueva per l’impegno negli studi e la capacità di aggregazione, qualità che ha dimostrato fino a diventare capo carismatico incontrastato del Comune d’Ischia e dell’intera isola. Enzo Mazzella ha avuto la fortuna di avere come Maestro e guida morale il grande Vincenzo Telese, persona eccezionale nel firmamento politico isolano, pioniere del turismo moderno. Da lui ha appreso l’amore verso la propria terra e il prossimo. Queste qualità primarie hanno accompagnato Mazzella per tutta la vita. E’ stato proprio lui che ha lasciato in eredità alla popolazione isolana strutture durature, dal palazzetto dello sport al nuovo campo sportivo con relative aree di parcheggio. Dal Polifunzionale all’Istituto Alberghiero. La notizia della prematura scomparsa dell’allora Assessore Regionale ai Lavori Pubblici arrivò, terrificante, il giorno di San Pietro e Paolo. Il politico più popolare dell’intera isola scomparve nel giro di poco tempo all’età di 53 anni. Persona iperattiva, nel pieno dei suoi anni migliori, sembrava impossibile che Enzo dovesse morire. Di strada ne aveva fatta tanta, cavallo di razza, lanciato ad una inarrestabile carriera politica a livello nazionale. Ammirato e invidiato da tutti, sembrava che dovesse dominare il destino con la sua forte personalità. Enzo Mazzella ha lasciato opere imperiture in testimonianza del suo passaggio terreno!

“Il destino mescola le carte e noi giochiamo”. Arthur Schopenhauer

Grazie al dispariquotidiano.it per la foto