il distacco dall’isola di Vincenzo, Alfredo e Mario

Al compimento del diciottesimo anno di età, uno alla volta Giacinto, Vincenzo, Alfredo, Tommaso, Nicola e Paolo rientrarono in seno alla famiglia paterna, dopo aver passata l’intera fanciullezza rinchiusi nell’orfanotrofio, fra abbandono e tristezza. Ognuno di loro aveva imparato un mestiere, ormai erano uomini formati e potevano affrontare il proprio destino. Alcuni di loro, Giacinto, Tommaso, Nicola e Paolo rimasero sull’isola, si sposarono mettendo su famiglia.
Uno zio materno che si trovava negli Stati Uniti spronò i nipoti a raggiungerlo. Solo tre di loro raccolsero l’invito. Vincenzo, il secondo dei sette fratelli, si sposò e accettò di buon grado di raggiungere lo zio, progettando di portare con sé la moglie incinta. Purtroppo la gravidanza si presentò difficile e la moglie rimase sull’isola con la mamma. Con lui s’imbarcò il più piccolo dei fratelli, Mario, che era giovanissimo, era cresciuto con la nonna materna a differenza dei fratelli più grandi, era sano e robusto, di bell’aspetto, di intelligenza vivace. Anche Alfredo, che era il terzogenito, si unì agli altri due. Raccolsero le poche cose che avevano; ognuno di loro portò dietro un ricordo dell’isola, come portafortuna, Alfredo portò un osso di seppia, Mario portò dei rami di lauro e Vincenzo una pietruzza levigata dalle onde a forma di cuore che la moglie aveva chiusa nel lenzuolo liso (cenerario in passato) e poi riutilizzato come sacco per trasportare le proprie cose. La partenza era stata molto sofferta per Vincenzo che aveva appena assaporato il calore e la compagnia di una donna che l’amava e si prendeva cura di lui.
Alfredo, più piccolo di 18 mesi di Vincenzo, aveva fatto l’impaginatore in una tipografia a Napoli e si era appassionato alla lettura, conosceva la bibbia a memoria. Gli sarebbe piaciuto entrare in seminario e diventare prete.
Mentre il più piccolo dei fratelli Mario aveva frequentato la terza elementare, sapeva leggere e fare i conti. Fisicamente era il più sano dei fratelli. La nonna che lui chiamava “Mammamaria” l’aveva tirato su privandosi lei del cibo per non far mancare niente al nipotino. Il ragazzo aveva capelli neri e lisci, gli occhi verdi, era smilzo ma forte. Era cresciuto assieme ad altri cugini dal lato materno. Fin da piccolo faceva il chierichetto e cantava nel coro della parrocchia organizzato dal parroco che aveva affidato a ogni partecipante uno strumento musicale. Mario aveva preferito la chitarra con cui si accompagnava nel canto. Fattosi più grandicello seguì gli altri due fratelli per l’avventura americana. Mammamaria, anche se lacerata dal dolore sapendo che non l’avrebbe più rivisto né tenuto stretto fra le sue braccia, fu felice che si unisse agli altri due fratelli più grandi nella speranza di un destino migliore. La vecchia donna aveva dato più amore a questo nipote, rimasto orfano appena messo al mondo che ai propri figli. Al momento della partenza fu uno strazio: non riusciva a staccarsi dal ragazzo, nemmeno lui dalla nonna perché anche se le voleva molto bene non aveva mai, per pudore, cercato il suo abbraccio. Le lacrime della donna lo raggiunsero nel più profondo del cuore. Dovettero intervenire i fratelli per portarlo a forza via.
Vincenzo, Alfredo e Mario si imbarcarono alla volta di Napoli. Nel porto di Napoli regnava un grande caos, migliaia e migliaia di famiglie, gente disperata, bambini senza compagnia di genitori, soli, macilenti affollavano l’area del porto provenienti da tutti gli angoli della Campania, del Lazio, Molise e altre regioni. I nostri fratelli preferirono prendere il treno e partire per la Francia per evitare la lunga traversata in mare. I disagi erano molteplici, ma per la giovane età e i loro trascorsi, erano abituati al sacrificio. Così dopo una lunga attesa riuscirono a prendere il treno e raggiungere Marsiglia. Qui c’erano molti napoletani, la zona del porto era frequentata da gente che viveva alla giornata. Marsiglia, a quell’epoca, raccoglieva la feccia del genere umano del Mediterraneo. La fame, la prostituzione, l’alcol e il malaffare regnavano sovrani. Trovarono una sistemazione nella zona chiamata “Le panier” in prossimità del porto, in un appartamento le cui stanze erano piene di letti singoli e letti a castello attaccati alla parete. Le mura della stanza erano impregnate di puzza di sudore, di cipolla e di pesce andato a male, i materassi erano pieni di pulci e solo un vespasiano serviva per tutti. Una vecchia, originaria di Genova, cucinava per tutti, la sera quando rientravano trovavano un piatto caldo. L’appartamento apparteneva a un vecchio di origini campane, nativo di Pozzuoli, i cui figli avevano dei banchi al mercato del pesce della città. Vincenzo e Alfredo trovarono un’occupazione come pescatori e venditori di pesce mentre Mario faceva il cameriere in una bettola sul porto che era frequentata da contrabbandieri, prostitute e delinquenti. In questo fermento una delle frequentatrici della taverna, Juliette, attratta da Mario, gli fece scoprire un mondo fino ad allora a lui sconosciuto. Scoprì il corpo femminile fino ad allora vagheggiato nei suoi sogni e il piacere da una meretrice di qualche anno più grande di lui.
Una sera Mario, dopo aver finito di lavorare, fu accerchiato e minacciato da tre figuri, gli puntarono il coltello alla gola intimandogli di dar loro il portofoglio. Non ebbe nemmeno il tempo di replicare, lo riempirono di botte e gli portrono via quei pochi soldi che aveva guadagnato. Per qualche giorno Mario non andò a lavoro per paura d’essere malmenato. Intervenne Juliette che, pratica della zona, conosceva bene le bande di malavitosi che frequentavano il porto. Dopo qualche giorno il ragazzo tornò al lavoro senza timore. I tre fratelli, dopo sei mesi di permanenza a Marsiglia, pensarono che era giunto il momento di trasferirsi in America. Conoscevano bene l’ambiente del porto e quasi quasi rimpiangevano di lasciare Marsiglia, ma la voglia di scoprire nuovi lidi e rincorrere il sogno americano era più forte. Avrebbero potuto imbarcarsi da Marsiglia ma, data la lunghezza della traversata, decisero di raggiungere il porto di Le Havre a Nord della Francia dove il tratto di mare attraverso l’Atlantico sarebbe stato più breve.
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La radio come juke-box

“……… Mia madre aveva ricevuto, grazie a un parente di ritorno da una visita ai fratelli “americani”, come regalo una radio che nessuno possedeva nel rione di Mezzavia. Nei pomeriggi primaverili o la domenica, la radio trasmetteva un programma di “Musica leggera”. I giovani di Mezzavia e del rione Ortola, si riunivano nello spiazzo in terra battuta sottostante il nostro balcone, chiamavano a gran voce Rosà (Rosanna, mia sorella) metti la “Luna rossa”, “O surdato ‘nnammurato”. Tutte richieste a mo’ di Juke box. Qualsiasi motivo di canzone capitasse, col volume al massimo, tutti cantavano a squarciagola con immensa gioia e allegria; altri si muovevano con maestria, scalzi, al ritmo della musica: dal Mambo al Boogie Woogie dalla Samba al Charleston. La più scatenata di tutti era Annarella “a iatta morta”: le avevano dato questo appellativo perché era indolente e se ne fregava di tutto ma quando ballava diventava un’altra persona, la musica si impossessava del suo corpo, specialmente il boogie, non la tenevi più. Non erano solo i ragazzi e le ragazza giovani a ballare ma anche persone non più giovani che qualche anno prima avevano ballato questi nuovi balli con gli Inglesi e gli Americani. Anche se ero poco più che un bambino, ero così incantato da questo spettacolo da voler che la musica non finisse mai per vedere ballare all’infinito Lillìn “cul a  mandulin”…………..”

San Giuseppe

AUGURI A TUTTI I PAPA’ E DI BUON ONOMASTICO AI GIUSEPPE AL MASCHILE E FEMMINILE

La festa di San Giuseppe annunciava l’inizio della primavera e la fine del freddo. Le giornate iniziavano ad allungarsi e questo ti riempiva di buon umore. E poi…. era la ricorrenza del mio onomastico, all’epoca si festeggiava esclusivamente l’onomastico, mai il compleanno. La festa si svolgeva alla località Fango. Per raggiungerla, noi di Mezzavia dovevamo percorrere via Pannella costituita da lunghi gradoni. Si saliva in gruppo, durante quella giornata vi si andava anche due o tre volte. Molte famiglie offrivano ai visitatori pizze di maccheroni e zeppole di San Giuseppe piene di crema bianca e zucchero, forse era per questo motivo che ci arrampicavamo più volte al giorno lassù!
Anche la chiesa di San Giuseppe era particolarmente bella nella sua semplicità, quasi spoglia a confronto con le altre di Lacco ma in compenso emanava un profumo molto intenso dato che era addobbata con fiori di fresia e viole a ciocche che nascevano spontanee nella campagna circostante…….

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L’entusiasmo di vivere

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“……….L’entusiasmo di vivere e buttarsi nella mischia della vita era stimolante come anche il desiderio di imitare i nuovi idoli che arrivavano dall’America. Lacco Ameno d’estate si riempiva di personaggi mitici che giungevano da tutto il mondo per distendersi al sole dell’isola d’Ischia e ritemprarsi nelle benefiche acque termali, richiamati dalla pubblicità martellante dei giornali di Rizzoli: persone che d’inverno ammiravi attraverso giornali, riviste o film e poi….. d’estate trovavi di fianco mentre passeggiavano sul lungomare oppure seduti a uno dei locali della riva destra di Porto d’Ischia!……….” www.peppinodesiano.i

Giocattoli costruiti da noi piccoli

Auguro una buona giornata a tutti gli amici di FB con un sereno ricordo della nostra infanzia:

Da bambino erano molti i giochi con cui passavamo pomeriggi interi fino a sera. Dopo mangiato, si dovevano fare i compiti e poi via a giocare a pallone fino a quando iniziava a fare buio. Da sottolineare che da Lacco Ameno sono usciti dei buoni calciatori talvolta arrivati in serie A.
Altri giochi erano svariatissimi, consistevano in giocattoli costruiti da noi piccoli.
Creavamo carrozzelle inizialmente con ruote di legno. Ma in seguito, dato il terreno sconnesso, le ruote si rompevano molto facilmente per cui furono sostuite con dei cuscinetti a sfera molto resistenti. Partivamo dall’altezza dell’attuale Hotel Mediolanum a scendere lungo la strada del “pisciariello”. Era molto divertente perché la discesa ancora adesso è abbastanza lunga e non c’era bisogno di spinta iniziale.
Un altro gioco che ci appassionava era “u piuz” che consisteva nel prendere due pezzi di legno robusti, uno più piccolo e uno più lungo. Si metteva a terra un po’ in bilico su una pietruzza il più piccolo, col bastone più lungo si doveva farlo sobbalzare da terra e colpirlo mentre si alzava mandandolo il più lontano possibile. Avevi tre movimenti, gridando: piuz e uno, piuz e dui e piuz e tre, vinceva chi lo scagliava più lontano.
Non mancavano gli album con figurine da mettere al posto giusto. Il più diffuso erano le figurine di “Marcellino Pane e Vino” film spagnolo molto conosciuto in Italia. Ci scambiavamo le figurine con chi aveva dei doppioni. Oltre alle figurine di Marcellino collezionavamo quelle dei calciatori che erano più piccole e sottili. Facevamo la conta e chi era il fortunato doveva provare per prima a farle girare con lo spostamento d’aria che produceva il palmo della nostra mano sbattuto su una superficie piana vicina. Le mani anche se piccole diventavano incrostate per le ferite e callose. Oppure dovevi capovolgere le figurine con un sostenuto soffio della bocca.
Il “cerchio” era un altro gioco da noi praticato facendo delle gare fra rioni. Consisteva nel far rotolare un cerchione di bicicletta spingendolo con un bastoncino di legno e cercando di tenerlo in equilibrio il più a lungo possibile. I cerchioni potevano essere più piccoli o più grandi a seconda della grandezza della bicicletta che ciascuno riusciva a rimediare.
Prima di andare a scuola ci dividevamo i compiti fra me e le mie sorelle per andare a prendere il pane appena uscito dal forno, caldo e profumato, nel rione Ortola da “Aniello”. Sceglievo sempre il pezzo di pane che aveva una specie di grissino attaccato per tutta la lunghezza. La forma e il peso del pane non era mai uguale allora per arrivare al Kg si aggiungeva la “ionta” (l’aggiunta) che mangiavamo per strada. Anche al mattino con una bottiglia di vetro da un litro si andava da “Giovanni e Mimì” due fratelli lattai che avevano due mucche a Laccodisopra. I due fratelli si dividevano lo stesso locale, noi eravamo clienti di Giovanni che spremeva direttamente dalla mucca. Poiché la spremitura produceva della schiuma dovevi attendere che si dissolvesse per poi arrivare lentamente al segno del litro. C’era sempre una fila di bambini al mattino che andavano a prendere il latte. La stalla era calda e puzzolente per tutti gli escrementi degli animali, c’erano delle tavole di legno dove poter passare senza sporcarsi.
La spesa la si faceva direttamente nelle botteghe dove comperavi la pasta che all’epoca era lunga e poi si spezzava al momento dell’uso. Non si pagava in contanti, il bottegaio segnava su un quaderno , a fine mese i genitori regolavano il tutto. Si andava alla fiducia e all’onestà del negoziante. Molto spesso questi segnava una quantità superiore a quella effettivamente spesa oppure c’era il cliente che negava l’acquisto, c’erano sempre dispute alla fine, da lì il detto: “Conto a lungo diventa serpente!” Anche l’olio veniva venduto non sigillato, attinto da un grosso contenitore e versato in una bottiglia portata dal cliente. I misurini erano da 1 litro, da ½ litro o da ¼.
Come formaggi si conosceva il provolone che era enorme e profumato e il Bel Paese che si dava a chi stava poco bene. I latticini non erano ancora diffusi, forse anche per la lontananza dalla terra ferma. L’unico di essi che mi ricordo è la “ricotta” che veniva tagliata con un filo di cotone.
Le verdure in genere le si comperava dal contadino direttamente ed erano tutte di stagione come anche la frutta. Non esistevano i prodotti surgelati. La prima volta che sentii parlare del frigo fu da un’amica di mia madre che veniva ogni anno da Brooklyn in occasione della festa di Santa Restituta e rimaneva a Lacco per più di un mese. Noi, d’estate, per rinfrescare l’acqua o il vino si comperava un pezzo di ghiaccio che poi veniva messo spezzettato nel boccale dell’acqua, del vino o della gassosa. L’amica raccontava che loro in America avevano il “frigidé” (refrigerator) e ne spiegava la comodità e i vantaggi. Anche il sale si andava a comprare in tabaccheria con un panno e veniva pesato.
La macchina del caffè moka non esisteva, il caffè era una rarità. Si consumava il caffè d’orzo abbrustolito direttamente in casa. La scelta dei cibi da mangiare era più limitata in confronto ad oggi ma sicuramente erano più sani e genuini! 

Come eravamo

SALA CONFERENZE DELLA BIBLIOTECA COMUNALE ANTONIANA IN ISCHIA – INCONTRO CON PEPPINO DE SIANO SU ” COME ERAVAMO ” ORGANIZZATO DALA FIDAPA BPW ITALY SEZ. DI ISCHIA – SALUTI DELLA PRESIDENTE FIDAPA VANNA DI MEGLIO INTRODUZIONE DELL’AVV. GIUSEPPE DI MEGLIO – TRA I VARI INTERVENTI QUELLI DEL SINDACO DI FORIO FRANCESCO DEL DEO, DEL GIORNALISTA E DIRETTORE DEL DISPARI GAETANO DI MEGLIO, DELLA CONSIGLIERA REGIONALE MARIA GRAZIA DI SCALA, DELL’AUTRICE DELLA GUIDA TURISTICA PERSONALIZZATA ” LA MIA ISCHIA ” DI ROSA THEA POLITO E DEL PROF. PASQUALE BALDINO – 

I palloni di carta

“……….I palloni di carta fluttuavano leggermente nell’aria mossi da una leggera brezza che arrivava dal mare, sembravano muoversi lentamente a tempo di musica e seguire le note di un’orchestrina che allietava la serata degli ospiti elegantissimi. Naturalmente noi eravamo tutti aggrappati, in silenzio, alla ringhiera che era coperta da buganvillea. Non ci muovevamo perché le spine della folta pianta ci teneva impegnati per non venir punti. Aspettavamo ore intere per ammirare Fernanda, svizzera italiana, esuberante e provocante ballare il mambo…………”.

Ritmo galeotto

“………La musica e il buon vino genuino accendeva gli animi dei giovanotti presenti e le ragazze o donne maritate a cui piaceva la musica e il ballo. I ragazzi aspettavano quelle occasioni per sfiorare una donna e in quei momenti di euforia diventavano più audaci, abili ballerini che, come in un sogno, avevano fra le braccia ragazze che non si sarebbero mai lasciate toccare in altre occasioni. In particolar modo quando il suono della fisarmonica accennava un tango, allora il ritmo intrigante coinvolgeva le coppie che, dimentiche del pubblico presente, grazie a un genuino bicchiere di nettare degli dei, si lasciavano trasportare sensualmente dal ritmo galeotto. A questo punto il marito o il fidanzato geloso, nel vedere la sua donna stretta fra le braccia di un altro, andava in escandescenze fra le risate e le urla dei presenti entusiasti dell’inaspettato spettacolo………” www.peppinodesiano.it

L’uomo e il mare

Anche d’inverno il mare ci regalava spunti per i nostri passatempi. Nel periodo di febbraio in riva al mare si trovavano gli ossi di seppia che ci servivano per pulire i pennini usati da noi tutti per scrivere che, col tempo, si incrostavano d’inchiostro. Anche gli uccelli li trovavano utili per pulirsi il becco. Vicino ad ogni gabbia di uccelli c’era un osso di seppia. In terraferma, lungo il litorale domizio, Mondragone, c’erano fabbriche conserviere che lavoravano la frutta per ottenerne il succo oppure confezioni di marmellata. D’inverno, dopo un lungo periodo, il mare portava a riva i noccioli che provenivano dai frutti lavorati dalle piccole industrie. Facevamo gli stessi castelletti che durante il periodo natalizio usavamo fare con le nocciole. Si trovavano pezzi di mattonelle molto resistenti modellati e ben levigati. Li usavamo al posto delle bocce che all’epoca erano di legno e costavano parecchio. Quando il mare era grosso capitava che “stracquassero” totani e calamari a riva. Andare sulle spiagge era sempre eccitante perché arrivava sempre qualcosa che per noi ragazzi significava tanto: pezzi di rete, sughero con cui adornare il presepe, oggetti strani, anche l’inverno aveva il suo fascino!

Abitavo proprio sul mare, una delle case più antiche di Lacco, appattenuta ai miei avi, in via Roma, di fronte al Fungo. La mia stanzetta aveva una finestra che s’affacciava direttamente sulla spiaggia. Quando c’era la tramontana il vento soffiava attraverso le imposte. Mia madre cuciva dei sacchetti riempiendoli di sabbia per eliminare gli spifferi. Mi copriva oltre che con la coperta imbottita, di colore rosso da un lato e giallo oro dall’altro, con dei pesantissimi cappotti americani che zio Giuseppe ci mandava dall’America. Di notte, nonostante il freddo, mi alzavo e aprivo gli scuri della finestra per ammirare il mare che mi affascinava e spaventava nello stesso tempo, quando era molto agitato. C’era il buio assoluto, le onde s’infrangevano con violenza contro il muro che separava la spiaggia dalla strada e dalla casa, sembrava volessero sgretolare l’intero palazzo. Il boato che producevano i marosi era cavernoso come l’urlo di un mostro. La salsedine arrivava fin vicino ai vetri della mia finestra che si trovava al terzo piano, gli spruzzi m’impedivano la vista completa. Il Fungo sembrava più vicino alla riva. Le onde, prima d’infrangersi, creavano un mulinello intorno allo scoglio, come se lo volessero sradicare, l’investivano e proseguivano fino alla riva. La strada di via Roma veniva invasa dall’acqua che arrivava fin all’inizio delle scale.
Al mattino quando dovevamo scendere per andare a scuola, contavamo le onde. Dopo la terza potevamo scendere perché la furia di esse scemava momentaneamente, per poi riprendere forza. Lo spettacolo era troppo bello ed entusiasmante. Negli anni quest’emozione è venuta a mancare perché, ingrandendosi il paese con case e negozi, è stato necessario proteggere la strada con delle scogliere. I danni a volte erano ingenti per un paese con poche risorse: le barche tirate a secco venivano sbattute contro il muro di separazione dalla strada con grave danno per i proprietari.

Una mattina mentre andavamo a scuola c’erano capannelli di persone in mezzo allo spiazzo davanti al molo. Alcune piangevano, altre si lamentavano sommessamente per la sciagura capitata ai loro parenti.
Due fratelli, a sera tardi, visto le cattive condizione del tempo, pensarono di portare la nuova barca in salvo nel porto d’Ischia. Il mare incominciò ad ingrossarsi con onde sempre più violente rendendo il tragitto verso il porto sempre più difficoltoso. Uno dei due, il più anziano, era più esperto e stava al timone, mentre l’altro più giovane cercava di scaricare l’acqua che entrava copiosa a bordo con tale violenza da invadere il vano motore. Passata la località del Castiglione, il motore si spense. La barca era in balia dei marosi finchè il più giovane dei due riuscì, dopo tanti tentativi, ad avviarlo. Erano poco distanti dalla bocca del porto, stavano a pochi metri dal faro, nel fare la manovra per entrare, un’onda fece sbilanciare la barca che sbandò. Il più giovane invocò il fratello di tenere forte il timone per non finire sugli scogli ma, nel girarsi a poppa, con terrore e sgomento si accorse che il fratello non c’era più. Urlò disperatamente il suo nome senza ottenere risposta, correndo da poppa e prua come un cane impazzito. Non c’era nemmeno l’ombra del fratello, ormai la forza delle onde l’aveva risucchiato. La barca stava per schiantarsi sugli scogli. All’improvviso sentì come una forza oscura, la mano di un Angelo o dello stesso fratello, sospingere la barca nel porto: la salvazione!
Il rifugio l’accolse ormai esausto, svuotato, senza forza e senza lacrime. Il sopravvissuto era già un tipo riservato, la perdita del fratello lo segnò per il resto della vita. Diventò ancora più taciturno e schivo fino alla fine dei suoi giorni! www.peppinodesiano.it