
Non c’erano soldi ma la voglia di divertirsi era tanta specialmente durante l’estate. Sulla spiaggia era severamente vietato giocare a pallone, c’era ‘on Giuseppe a uardia che, come un cerbero, ti sequestrava la palla.
Il mio blog
Non c’erano soldi ma la voglia di divertirsi era tanta specialmente durante l’estate. Sulla spiaggia era severamente vietato giocare a pallone, c’era ‘on Giuseppe a uardia che, come un cerbero, ti sequestrava la palla.
Il mercoledì delle ceneri, a Lacco, ogni famiglia metteva fuori al balcone o alla finestra un pupazzo di pezza rappresentante una vecchina brutta come la befana con una patata all’estremità in cui venivano sistemate delle penne di gallina, sette per la precisione. Ogni settimana ne veniva tolta una, fino all’ arrivo della Pasqua. Tutti i ragazzi facevano il giro del rione e cantavano la filastrocca di Quaresima dove era esposto il pupazzo di stoffa per avere in dono qualche fico secco o castagna “pest” (secca):
Quaraesema secca e longa
se mangiava e fiche long
l’ liciett dammene una
me chiavav nu cauce ‘n culo,
l’ liciett dammene nata
me chiavav ‘na zucculat.
Il nostro carnevale consisteva nell’indossare una maschera di carta che rappresentava la faccia di un indiano con intorno penne di carta colorate o il viso di un pirata, per le bambine c’era una maschera di carta che rappresentava la fata turchina. I più fantasiosi si disegnavano dei baffi o tutto il viso di nero con un tappo di sughero bruciato sul fuoco. Allora non c’erano abiti bastava che ti coprivi con una “petaccia” e andavi in giro in gruppo, da rione in rione, bussavi alle case e sorgeva spontanea la domanda: indovina chi sono? Il padrone di casa faceva finta di rimanere sorpreso e diceva tanti nomi ma mai il tuo per darti la soddisfazione che ti eri ben mimetizzato. www.peppinodesiano.it
Ogni anno d’estate l’isola d’Ischia si riempiva di villeggianti, la maggior parte erano affermati professionisti e ricchi commercianti napoletani che arrivavano sull’isola e restavano con le loro famiglie per un periodo minimo di un mese, due o tre: allora le scuole iniziavano il due ottobre. Era un mondo molto variopinto, allegro e rumoroso. C’erano famiglie che avevano al seguito, oltre alla cameriera fissa, anche una ragazza straniera inglese o svizzera che faceva da governante ai bambini. La donna di servizio veniva sempre dall’entroterra napoletano, in genere erano ragazze di umili origini che dipendevano letteralmente dalla padrona di casa. Sia le ragazze straniere che le cameriere erano corteggiate dagli uomini del posto giovani e vecchi. Forse per il clima festoso delle vacanze queste ragazze erano molto disponibili all’avventura, specialmente le straniere che nei loro paesi non potevano godersi il sole, il mare e un clima mite come il nostro. Sembravano inebriate e avide di godere la vita come non avevano mai fatto prima di allora. Una in particolare Michelle, parigina, veniva ogni anno come ragazza alla pari presso una coppia di Inglesi con il marito archeologo che lavorava agli scavi nella vallata di San Montano. La ragazza aveva il compito di badare ai tre figli e insegnare loro il Francese. Oltre che simpatica era anche carina: capelli rossi e occhi verdi, di un’avvenenza da lasciar senza respiro, dopo aver abbronzato la pelle le rimaneva addosso il profumo del mare. La sera era felice di trascorrere il suo tempo con noi ragazzi, era amica di tutti, non faceva distinzioni di età, le piaceva ascoltare la lingua italiana che diceva essere una melodia, Ogni estate tutti aspettavano l’arrivo di Michelle, disinibita, sempre allegra, in cuor nostro speravamo che gli scavi non finissero mai! La sera tutti insieme andavamo al ristorante “Buattella” dove ‘on Ferdinando, il pizzaiolo, ci faceva le pizze più ricche e abbondanti, le piegava in due e le metteva in cartoccio. Michelle gli regalava un bacio sulla guancia e ‘on Ferdinando andava in estasi. Tutti insieme, al chiaro di luna, andavamo a mangiare le pizze in spiaggia.
Una sera, mentre eravamo sul terrazzo a mare dello Sporting insieme ad altri curiosi per assistere alle riprese di una scena di un film che andavano girando, una delle ballerine cadde rovinosamente a terra. L’aiuto regista, che per tutta la serata non aveva tolto gli occhi dalla nostra amica francese, colse l’occasione per invitarla a ballare. Con nostra gioia fu ingaggiata per tutta la durata delle riprese, purtroppo non vedemmo più Michelle che ormai seguì la troupe cinematografica e l’aiuto regista fino alla conclusione delle riprese!
Iniziare un approccio con le ragazze che facevano le “cameriere” presso famiglie di villeggianti era più complicato, alcune erano scorbutiche e inavvicinabili altre erano più disponibili. La più popolare era Melina proveniente dalle campagne del beneventano, era sulla trentina, molto simpatica specialmente quando imitava “la signora” parlando un italiano maccheronico e divertente allo stesso momento. Anticipò nel tempo la figura di “Bocca di rosa” di Fabrizio De Andrè e quella di “Gradisca” di “Amarcord” di Federico Fellini in versione napoletana. Anche a lei piaceva divertirsi e non aveva mai pensato di mettere su casa. Quell’anno Melina cambiò totalmente atteggiamento, non era più espansiva e gioiosa. I suoi occhi erano solamente per “Ndriuccio”, sposato con quattro figli piccoli, il più grande dei quali aveva solo 10 anni. Ndriuccio lavorava come fanghino in un complesso termale di Casamicciola. La moglie, Concetta, per aiutare il bilancio familiare lavava i piatti in un ristorante del posto durante il periodo estivo. Con grande sacrifici stavano sistemando l’appartamento ricavato dall’antica baracca della famiglia di lei. Ndriuccio, quell’estate, perse la testa per Melina, passava ore fuori la casa dove lei prestava servizio, sperava di vederla e avere qualche momento di intimità quando i “signori” andavano al mare. Con la scusa di andare a far la spesa, la giovane raggiungeva il suo spasimante e si appartavano nel pollaio antistante la casa in affitto. Erano diventati la favola del paese. Ndriuccio faceva parecchie assenze al lavoro. La direttrice delle terme aveva minacciato più volte di licenziarlo ma, considerando la precarietà economica della famiglia, temporeggiava. Purtroppo a lungo andare fu costretta a mandarlo via. Nemmeno il parroco poteva far niente, ormai dicevano che l’uomo s’era scimunito e non riuscivano a riportarlo sulla retta via. Diventò violento con la moglie, i figli e i parenti. Non c’era verso di farlo ragionare, le donne del vicolo dicevano che era stato affatturato. Ndriuccio non sopportava che i bambini piangessero o facessero capricci. Dopo un ennesima scena di violenza contro i figli e la moglie, la donna non capì più niente, Ndriuccio continuava a imprecare contro il più piccolo che piangeva nella culla. Fu un tutt’uno: la donna, anziché buttare la pasta nel recipiente con l’acqua che bolliva sul fuoco, prese la pentola e versò l’acqua bollente sull’attributo maschile del marito che era in mutande sul letto, ustionandolo. Le grida disperate del malcapitato attirarono una moltitudine di persone fuori alla porta della loro baracca. In quel parapiglia, non sapendo come agire in quelle circostanze, la donna gettò della farina sulla parte ustionata con la speranza che si attutisse lo spasmo finché i vicini caricarono il marito su una carrozza e lo portarono al pronto soccorso dell’ospedale.
Il giorno dopo tutto il paese affollò il botteghino del Lotto per giocare i numeri 6 – 29 – 38- 49- 78 sulla ruota di Napoli!
La Pasqua è sempre stata rappresentata in genere con gli alberi di pesco in fiore anche sui libri di scuola: rappresentava proprio un tuffo nella primavera. All’asilo, suor Gigliola ci faceva disegnare un uovo che riempiva tutto il foglio, al lato destro del foglio praticavamo due incisioni orizzontali e dentro ci mettevamo una striscia di carta un po’ più spessa con un fumaiolo disegnato sulla cima. Essa andava su e giù per il foglio, il tutto era coloratissimo.
Fin dai giorni precedenti la Pasqua andavamo nel bosco in cerca della “rova” (robbia) la cui radice serviva a tingere le uova di rosso. Ne trovavamo in grande quantità e qualche volta la vendevamo anche in piccoli mazzetti, col ricavato compravamo qualche uovo di cioccolato da “Mattia u tabaccar”. Le mie sorelle mettevano foglioline di prezzemolo o di trifoglio in un pezzo di calza di nylon che avvolgevano intorno all’uovo da cuocere per far diventare sodo, così, alla fine della cottura, tolto l’involucro, usciva la fogliolina desiderata impressa sul guscio dell’uovo. Erano dei piccoli capolavori, altre ragazze coprivano le uova con dei pezzetti di rete da pesca: la fantasia andava a ruota libera. Con la ricerca della “rova” iniziava la caccia al tipo d’uovo più adatto da “tozzare” per rompere più uova possibili. Si diceva che le uova delle galline di Gelormina fossero le più dure perciò mettevo in croce mia madre perchè andasse a rifornirsi dalla sua amica e scegliesse le uova più appuntite anzicchè quelle tondeggianti, ma quasi sempre in questo gioco avevo la peggio!
Finalmente, dopo aver assistito alla messa di mezzanotte col tipico suono della “troccola” all’inizio del Gloria della Veglia pasquale, si andava a letto aspettando con ansia il giorno della domenica di Pasqua. Al mattino seguente, intorno a mezzogiorno si assisteva alla “Corsa dell’Angelo” che aveva luogo nello spiazzo antistante la parrocchia, fra la chiesa e l’ingresso del palazzo dei Calise Piro, all’inizio di via C. Colombo.
Le statue coinvolte in questa manifestazione provenivano dalla chiesa dell’Assunta di Laccodisopra: la statua della Madonna coperta da un velo, la statua di San Giovanni, il Cristo Risorto e l’Angelo che è il protagonista della corsa.
La Madonna e San Giovanni sostavano davanti alla chiesa mentre il Cristo e l’Angelo venivano posti all’inizio di via C. Colombo
I fedeli affollavano le vie circostanti. Quando la corsa stava per iniziare tutti tacevano, il silenzio era tombale. Un canto possente che si elevava a gran voce, il “Regina Coeli”, cantato dai pescatori e dai contadini dava inizio alla manifestazione. L’Angelo compiva tre inchini davanti a Gesù e per tre volte correva ad annunciare alla Madonna la Resurrezione. Poi la statua della Vergine e di San Giovanni si recavano in processione verso il Cristo. Nell’avvicinarsi, fra gli applausi del pubblico e una pioggia di petali di fiori colorati lanciati da ragazze sui balconi, veniva fatto cadere il velo della Madonna con l’accompagnamento del suono festoso e incessante delle campane. Esse diffondevano la buona novella a tutta la comunità: E’ Pasqua, Cristo è risorto.
Questa manifestazione in effetti non durava a lungo ma i minuti erano intensi e ricchi di pathos. Oggi la cerimonia si svolge in piazza Santa Restituta ed è più scenografica.
Mentre si svolgeva la rappresentazione noi ragazzi eravamo intenti a “tozzare” con le uova. Se ne consumavano tantissime, chi riusciva vittorioso, il giorno dopo lunedì in albis, doveva scontrarsi con i Casamicciolesi. A seguito di un voto fatto a Santa Restituta dagli abitanti di Casamicciola e di tutta l’isola d’Ischia, in caso fossero stati risparmiati dalla peste, sarebbero venuti, a piedi, a Lacco Ameno il lunedì di Pasqua. Gli unici a mantenere viva la promessa furono gli abitanti di Casamicciola. La festa diventava ancora più importante perché molti di loro erano imparentati con gli abitanti di Lacco. Anche io avevo un sacco di cugini e parenti che rivedevo in quella ricorrenza. Che atmosfera! Si andava a mangiare in riva al mare sulla spiaggia di San Montano, oppure nei boschi di Zaro, dove incontravi altri nuclei familiari che tutti assieme erano venuti come si diceva “a mettere il culo all’erba”. In quell’occasione si mangiava salame e vari tipi di formaggi e le uova colorate reduci dalla battaglia del tozza-tozza. In tutte le comitive campeggiava il famoso “casatiello” che consisteva in una ciambella rotonda, farcita di formaggio piccante, pepe e salame e con sopra uova ingabbiate in strisce incrociate di pasta di pane. Non mancava la regina della festa: la pastiera di grano aromatizzata coi fiori d’arancio la quale si sposava perfettamente con tutti i profumi primaverili che ti circondavano!
La festa di San Giuseppe annunciava l’inizio della primavera e la fine del freddo. Le giornate iniziavano ad allungarsi e questo ti riempiva di buon umore. E poi…. era la ricorrenza del mio onomastico, all’epoca si festeggiava esclusivamente l’onomastico, mai il compleanno. La festa si svolgeva alla località Fango. Per raggiungerla, noi di Mezzavia dovevamo percorrere via Pannella costituita da lunghi gradoni. Si saliva in gruppo, durante quella giornata vi si andava anche due o tre volte. Il Fango era molto distante dal centro di Lacco e i ragazzi di questa contrada si distinguevano dagli altri del paese per i capelli cortissimi e ai piedi portavano zoccoloni con le “centrelle” per non scivolare. Molte famiglie offrivano ai visitatori pizze di maccheroni e zeppole di San Giuseppe piene di crema bianca e zucchero, forse era per questo motivo che ci arrampicavamo più volte al giorno lassù! Anche la chiesa di San Giuseppe era particolarmente bella nella sua semplicità, quasi spoglia a confronto con le altre di Lacco ma in compenso emanava un profumo molto intenso dato che era addobbata con fiori di fresia e viole a ciocche che nascevano spontanee nella campagna circostante. Questi olezzi rimangono impressi nella memoria per tutta la vita, difatti come arriva la primavera, ancora oggi, i muri di campagna sono coperti di questi fiori spontanei, il cui profumo ti riporta alla mente ai giorni felici dell’infanzia. Con la ricorrenza di San Giuseppe iniziava in paese un ciclo di feste e quasi la fine della Quaresima. All’inizio del periodo, il mercoledì delle ceneri, ogni famiglia metteva fuori al balcone o alla finestra un pupazzo di pezza rappresentante una vecchina brutta come la befana con una patata all’estremità in cui venivano sistemate delle penne di gallina, sette per la precisione. Ogni settimana ne veniva tolta una, fino all’ arrivo della Pasqua. Tutti i ragazzi facevano il giro del rione e cantavano la filastrocca di Quaresima dove era esposto il pupazzo di stoffa per avere in dono qualche fico secco o castagna “pest” (secca):
Quaraesema secca e longa
se mangiava e fiche long
l’ liciett dammene una
me chiavav nu cauce ‘n culo,
l’ liciett dammene nata
me chiavav ‘na zucculat.
Un anno durante la settimana di passione avvenne un fatto fuori dall’ordinario. In paese un comitato di donne aveva organizzato varie manifestazioni per rinnovare il manto della statua della Madonna Addolorata. L’associazione si era impegnato in lavori di rafia, di paglia, di uncinetto e altri lavori d’artigianato locale con cui allestivano una pesca di beneficenza, durante il periodo estivo, per raggiungere una somma necessaria atta a comprare un nuovo manto. Dopo anni di impegno, coi soldi raccolti, comprarono un sontuoso manto nero ricamato con fili d’oro. Lo sforzo e l’impegno profuso per raccogliere le offerte ne era valsa la pena perché l’abito era sfarzosamente ricco. Per farlo ammirare a tutti i fedeli, la Madonna, all’inizio della Settimana Santa, fu esposta su un piccolo ripiano in modo che ogni fedele potesse apprezzare il risultato del lavoro collettivo da vicino. Un pomeriggio successe un fatto eccezionale. Poco distante dalla chiesa la gente gridava al miracolo: la Madonna Addolorata era uscita dalla chiesa e camminava tutta sola per la strada principale del paese. La voce si sparse in un battibaleno per tutti i rioni di Lacco, dal Capitello all’Ortola, da Mezzavia a Laccodisopra: la Madonna sta camminando! Una gran folla incredula e sbalordita seguiva la Madonna. Il povero parroco che aveva appena portato l’estrema unzione a un moribondo, appresa la notizia, seguito da uno stuolo di chierichetti, si precipitò correndo verso la parrocchia, davanti alla chiesa trovò una gran folla che gridava al miracolo piangendo e pregando in ginocchio a gran voce. Il parroco senza perdersi d’animo si avvicinò alla statua alla cui estremità si intravedevano delle scarpette di colore marrone sporche e malandate. Allargato il mantello, scorse la figura di “Luciell a pazziarel” che ficcatasi sotto il busto della Madonna aveva deciso di portarla in giro per il paese, per una passeggiata con l’abito nuovo. (La statua dell’Addolorata si compone di un busto adagiato su strisce di legno a forma di “gabbia” o “girello”). Il botteghino del Lotto fu preso d’assalto per le giocate dell’avvenimento.
Ogni anno puntuali, dopo la vendemmia, arrivavano le donne da Barano o da Buonopane con in testa enormi mazzi di paglia che le donne di Lacco avrebbero usato per ricavarne vari tipi di oggetti, rivenduti specialmente in costiera amalfitana o a Capri. Come arrivava il mese di ottobre le donne scendevano a piedi attraverso dei sentieri dall’Epomeo fino al Maio, Sentinella, Fango per raggiungere i vari rioni di Mezzavia o rione Ortola con ai piedi scarpe rotte avvolte in sacchi di yuta o pelli di coniglio. Oltre a vendere la paglia vendevano conigli, polli e verdure. Il lavoro della paglia aiutava le donne di Lacco a far quadrare lo scarno bilancio familiare, anche le ragazze giovanissime erano impegnate in questo tipo di occupazione. La paglia veniva prima pulita (annettata) in fili che raggiungevano un metro circa di lunghezza, raggruppati poi in mazzi legati con gli stessi fili. Venivano sistemati sulla parete dei “cufnaturi” (vasi di coccio); quando il vaso era pieno si accendeva una manciata di zolfo all’interno, si copriva il tutto con un panno leggero e dopo mezz’ora la paglia era sbiancata e pronta. A questo punto essa veniva bagnata per renderla più flessibile e le abili mani delle donne la trasformavano in cordoni di varie forme, a treccia o rotondi, con cui si facevano cestini, cappelli, ventagli, borse. Specialmente d’inverno, quando il tempo era rigido e la campagna riposava assieme al vino nelle cantine e il mare era mosso e non permetteva ai pescatori di uscire per la pesca, si viveva dei proventi di questi lavori. Anche le barche della “Tonnara” erano tirate a secco e venivano fatti i lavori di riparazione alle reti e alle barche. Mia madre come tutte le donne di Lacco lavorava la paglia, maggiormente la sera intorno al braciere, la sua specialità era la manifattura di cordoni. Dopo averne confezionato una notevole quantità li consegnava a “Rita” negozio del rione Ortola; in cambio riceveva cotone e stoffa con cui faveva camicette e piccoli capolavori per le mie sorelle che erano giovani e carine. Il lavoro artigianale della paglia impegnava tutti i componenti di una famiglia, dal più piccolo al più grande. Mia cugina Rosa di zio Paolo mi raccontava che, dopo il terremoto del 1883, per far rinascere il commercio ed aiutare gli abitanti del posto, una nobildonna napoletana con altri benefattori crearono una specie di consorzio in un locale chiamato “u barraccone” (attuale Bar Franco, rivendita di giornali e parrucchieria). Qui le donne del posto si riunivano a lavorare e producevano lavori artistici che poi venivano esportati e venduti nel periodo estivo in tutto il territorio nazionale ottenendo persino dei riconoscimenti alle mostre dell’artigianato.
In quegli anni niente si buttava: molte donne conservavano i capelli caduti (persino quelli che rimanevano nei pettini e anche le trecce tagliate alle ragazzine) li lavavano e conservavano per poi essere ceduti a “u’capellar” in cambio di spille, gomitoli di lana, cotone per il cucito, cotone per il ricamo, aghi e oggetti simili. Molte ragazze, a volte per voto, a volte per amore, altre volte per soldi, tagliavano i loro lunghi capelli ricci, lisci, neri, biondi che poi venivano usati per confezionare parrucche.
Un momento di grande fribillazione ed entuasiasmo si creava con l’arrivo del fotografo, perché nessuno possedeva una macchina fotografica. Per i vicoli c’era grande fermento. Tutti si vestivano con gli abiti di festa più belli, le ragazze bellissime, con le gonne larghe e fiorite cucite dalle mamme oppure dalla sarta del paese, si trasformavano per l’occasione. Tante persone, che abitualmente vedevi vestite sempre con gli stessi indumenti, sembravano personaggi di fotoromanzi. Il giardino della famiglia e “Capemort”, con gli innumerevoli vasi da fiori della ceramica Mennella, poggiati su colonne di pietra, accanto a cespugli colorati, a terra, circondati da statue in terracotta o fontanelle di acqua sorgiva, si trasformava in un set cinematografico come quello del grande Federico Fellini. Tutti sceglievano l’angolazione giusta tra i vasi ornamentali. Per le foto ufficiali veniva appesa a una corda nel giardino una coperta fra le meglio conservate che faceva da sfondo. Il fotografo veniva da Napoli, restava più giorni a Lacco Ameno e sull’isola d’Ischia. Faceva fotografie e foto per cartoline illustrate. Quasi tutti gli abitanti dei rioni si facevano immortalare, chi per ricordo, chi per mandarla al genitore che navigava, chi ai parenti lontani. Alcune volte la foto serviva per far conoscere una ragazza ad un figlio di emigranti in America per combinare matrimoni a distanza, dal momento che la famiglia americana preferiva per nuore ragazze del luogo natio. A quell’epoca avvenivano i matrimoni per procura, vigeva ancora la regola “moglie e buoi dei paesi tuoi”. Altri giovani italo-americani venivano a volte in vacanza per prendere moglie, specialmente durante le festività di Santa Restituta. Per il paese si spandeva la voce già in anticipo, allora le mamme preparavano le figlie facendo loro indossare gli abiti più belli e queste si recavano ad assistere al rito della messa delle ore 11,00 alla chiesa di Santa Restituta. Questa messa era una passerella più che un momento di culto. Partire per l’America costituiva “il sogno americano”, col marito si cercava di sfuggire a una realtà misera. Una mia cugina, molto bella, intraprese uno di questi viaggi e si sposò a Brooklyn. Portò con sé l’abito da sposa molto particolare, con un lungo strascico, confezionatole dalla nonna, cugine e ragazze del rione. Prima di recarsi in chiesa fece una foto indossando questo vestito e una parente inviò la foto a un concorso indetto da un famoso giornale americano per “la sposa più bella d’America”. Risultò vincitrice e come premio ottenne un viaggio col marito a Parigi! Ciò consacrò la creatività dell’isola: Carmela è ancora vivente (ultrtanovantenne), l’ho incontrata per la prima volta a Boca Raton, Florida 10 anni fa col nome americano: Dollie! Il nome è veramente meritato!