Un tuffo nel passato

A volte basta un niente, vai a fare una visita improvvisata ad un tuo caro amico che non vedevi da tanto tempo e accade la magìa: un tuffo nel passato!
M’ero proposto più volte di andare a trovare a casa il mio amico Paolo che non vedevo da una vita e che non esce quasi più. Ci vado oggi, ci vado domani e non trovavo mai il tempo. Paolo è stato un professore di latino e greco, ha insegnato in un liceo per tanti anni a Roma, adesso è in pensione. Vive da solo, è ritornato nella sua casa nativa di Lacco Ameno, è circondato dai suoi gatti che gli fanno compagnia tutto il giorno. Una cordiale signora straniera gli fa le pulizie tre volte a settimana. Lui è stato corrispondente di un noto giornale nazionale: così se non l’incontravo, leggevo i suoi articoli e sembrava di discutere direttamente con lui. Oggi vive soddisfatto la sua vita tranquilla fra le sue carte, scaffali pieni di libri, giornali, quaderni tipo computisteria: un grande caos dove solo lui sa districarsi. Le sue ricerche sull’isola d’Ischia sono preziose, ognuno può attingere le notizie più attendibili e circostanziate dell’isola, dalle origini della stessa a oggi. Qualche volta ci siamo scambiati delle telefonate ma non ci vedevamo da parecchio, che dico anni, una vita! Mi trovo sotto la casa di Paolo, so che ha sempre un buon vino, il frutto che l’affittuario del terreno gli riconosce e lui Paolo è contento purché la terra dei suoi antenati non resti incolta. Ne approfitto, suono al video citofono, uno scatto e subito l’uscio si apre. Dal portone nuovo di zecca m’aspettavo che, dopo tanti anni, tutto fosse cambiato all’interno, invece una volta aperto, come in un sogno, appare la scala per salire al terrazzo che è la stessa, un po’ sconnessa coi gradini di tufo verde. Ai lati dal muro fuoriescono fresie bianche antiche e violacciocche profumatissime, tutto è intatto, tutto uguale a quando ero ragazzo e venivo a studiare col mio amico. Come metto il piede sul terrazzo mi viene letteralmente un colpo al cuore. Sembra il “piccolo mondo antico” della nostra gioventù. Il terrazzo di terrapieno è lo stesso con la differenza che è colmo di Tillandsia che negli anni si è moltiplicata. Numerosi grappoli di questa pianta invadono gran parte del giardino. Il rigoglioso albero di mandarino è ancora là come anche quello d’arancio e quello di limone. Le galline come allora razzolano in un’area circoscritta anzi c’è anche un’oca bella grassa. Lateralmente all’ingresso del pollaio ci sono delle gabbie per conigli più nuove. Tutto uguale: niente è cambiato, perfino le casette, dove lui abitava col fratello e i genitori, sono le stesse, belle, linde, pittate con calce bianca. Il pergolato di rose tanto caro alla madre è ancora là, dove noi studiavamo da ragazzi: il tavolo in pietra di tufo, con le sedie di pietra tutte uguali, il tempo si è fermato agli anni 50/60! La mamma lavorava alle Terme della Regina Isabella. Al pomeriggio, prima di recarsi al lavoro, ci portava una dolcissima premuta d’arancia proveniente dal loro giardino. Con Paolo ho trascorso gli anni più belli della giovinezza. Tutto era nuovo durante la nostra adolescenza, ogni giorno scoprivamo orizzonti insoliti. Insieme ad altri amici organizzavamo le serate da ballo in una delle stanze della sua famiglia che era la sala da pranzo. Addossavamo il tavolo al muro ed avevamo più spazio per ballare. Paolo aveva uno dei primi giradischi e dei dischi. Le ragazze che partecipavano al ballo erano sempre poche, per vederne qualcuna in più dovevi aspettare le feste di Natale, allora i genitori davano il permesso di uscire e rimanere un poco più a lungo fuori. Durante le festività il nostro gruppo di amici veniva quasi sempre invitato in case dove la figliolanza era quasi tutta al femminile e le mamme e le zie sponsorizzavano queste occasioni nella speranza di “piazzare” figlie e nipoti. Ci fu qualche caso di accoppiamenti duraturi. I dischi che andavano per la maggiore erano quelli di Peppino di Capri, Rita Pavone, Mina, Eduardo Vianello, Fred Buongusto e altri, non mancavano quelli di cantanti starnieri, da Françoise Hardy a Chubbi Checker, da Aznavour a Paul Anka, da Elvis Presley ai Rolling Stones. Le serate erano piene di entusiasmo e aspettative, iniziavano intorno alle 17,00 e finivano intorno alle 21,00. Ognuno di noi aveva desideri nascosti con la speranza di ritrovare la stessa ragazza con cui avevi ballato la settimana precedente e non aveva rifiutato le tue “vibrazioni” al suono palpitante di “Cuore” cantata da Rita Pavone. Oppure c’era un altro tipo di invitata che non ti permetteva di stringerla, anzicchè ballare girava sempre su un lato per mantenerti lontano. La pressione saliva al massimo con la canzone dell’estate Cuando calienta el sol cantata dai Los Hermanos Rigual: come riuscivi ad appoggiare lentamente il viso a quello della ragazza, lei giovane e timorosa ai primi approcci aveva le guance di fuoco, scottava come se avesse la febbre. La “tempesta” dei sensi era fortissima e la voglia di crescere era prepotente. Iniziavano i primi “flirt”, sbocciavano “grandi amori”, altri finivano, nascevano nuove amicizie. Capitava anche che attraversavi la stanza per invitare una ragazza a cui tenevi e quella rifiutava e ritornavi al tuo posto scornato per la vergogna. L’entusiasmo di vivere e buttarsi nella mischia della vita era stimolante come anche il desiderio di imitare i nuovi idoli che arrivavano dall’America. Lacco Ameno d’estate si riempiva di personaggi mitici che giungevano da tutto il mondo per distendersi al sole dell’isola d’Ischia e ritemprarsi nelle benefiche acque termali, richiamati dalla pubblicità martellante dei giornali di Rizzoli: persone che d’inverno ammiravi attraverso giornali, riviste o film e poi….. d’estate trovavi di fianco mentre passeggiavano sul lungomare oppure seduti a uno dei locali della riva destra di Porto d’Ischia!
Il suono di una chiamata al cellulare mi fece ritornare alla realtà di oggi, nemmeno il tempo di apprezzare un bicchiere di bianco delle vigne di Paolo che dovetti far ritorno subito a casa con la promessa che ci saremmo rivisti a breve…..!

A mio padre

A mio Padre
Giacinto, Vincenzo, Alfredo, Tommaso, Nicola e Paolo vivevano felici nella loro grande casa in riva al mare. Il padre Giuseppe era in amministrazione nel Comune più piccolo dell’isola, mamma Rosa accudiva la casa. Avevano qualche appezzamento di terreno sparso per il paese di Lacco Ameno e producevano ogni ben di Dio: uva bianca da tavolo e da vino, pomodori, piselli, fagioli, ceci, persino le lenticchie rosse che grazie al terreno sabbioso riuscivano a produrre in grande quantità. La vita si svolgeva fra i campi e le spiagge del paese. I fratellini avevano un asinello chiamato “Gemì” che serviva per il trasporto della legna dalla campagna al paese oppure dalle falde dell’Epomeo alla casa di campagna. I bambini gli erano molti affezionati, a volte montavano in groppa 2 o 3 insieme e Gemì era ben contento di portare quel carico leggero e festoso. I pesi più voluminosi li trasportava “Nerone” il mulo, robusto e possente che viveva nella stalla sopra la località “Pannella”. L’ambiente familiare era idilliaco per questi fratelli che crescevano in mezzo alla natura e fra i resti di quella che fu la villa atavica dove avevano soggiornato re, regine, principi e artisti: la casa alla Pannella ormai ridotta in macerie. La cantina che si trovava nei sotterranei della dimora era stata risparmiata dal disastro del 1883 e quindi la famiglia continuava a sfruttare quell’area. Inoltre il padiglione leggero dove si intrattenevano gli ospiti durante la calura estiva era rimasto intatto e fu trasformato in stalla per Nerone e Gemì. Divisi da una transenna di pali trovavano posto le tre caprette e u’zimbr (caprone), un pollaio ben assortito, un altro scomparto per le oche e tacchini. Per i ragazzi era il paradiso terrestre. Quando non stavano in campagna erano giù al mare nella casa del Capitello che comunicava con la spiaggia per mezzo delle scale. La mamma li controllava attraverso il balcone e la finestra che davano direttamente sulla spiaggia. I più grandicelli con una canna di vimini e del filo avevano costruito una lenza per pescare e una fiocina col ferro per catturare i polpi fra gli scogli antistanti la loro abitazione. L’infanzia procedeva serena. Erano sei fratelli: il più grande di 11 anni e il più piccolo di 14 mesi. Mamma Rosa era di nuovo incinta ed era prossima al lieto evento del settimo fratellino. Arrivato il giorno fatidico la giovane donna partorì un bellissimo bambino a cui diedero il nome di Mario in onore alla Madonna. Qualche ora dopo ci fu una forte emorragia e nel giro di poco tempo la tragedia: Rosa morì lasciando un neonato, più 6 piccoli in tenerissima età nella disperazione di tutta la famiglia. Il padre degli orfanelli dopo poco si risposò e come in tutte le favole la “matrea” (nuova mamma) decise, influenzando il marito, l’allontanamento dei sette fratellini dalla casa paterna. I ragazzini vennero separati e rinchiusi in orfanotrofi sparsi fra il Lazio e la Campania. Soffrirono pene e violenze disumane senza incontrarsi per anni. I più piccoli invocavano in continuazione la mamma morta che venisse loro in soccorso. Mai una carezza, mai più un abbraccio. Una volta isolati nessuno si interessò a loro. Sporadicamente un’anima pia andava a far visita a uno dei bambini mossa da pietà. Delle suore erano addette alla custodia dei piccoli, impietosite cercavano di dare loro conforto ma i bambini a cui badare erano talmente tanti che non ce la facevano a curarli tutti singolarmente. Per molti di questi orfani nel periodo natalizio c’era qualche nonna, zia, parente, vicino di casa che faceva loro visita mentre i nostri 7 fratellini furono dimenticati dalla comunità di cui avevano fatto parte, abbandonati al loro destino. A differenza dalle favole per loro non ci fu nessuna fata a ripagarli del torto subito. In compenso i fratelli ebbero in seguito una vita normale coronata da figli e nipoti superando l’infamia dei loro parenti adulti.

Auguri di Buon Natale

Auguri di un Natale pieno di gioia, di armonia e salute a tutti gli amici di FB

Dicembre era il mese invernale per eccellenza. La vita dell’isola d’inverno scorreva lenta con tutte le sue tradizioni. Le manifestazioni natalizie erano le più sentite dal popolo ischitano. Al calar del sole mamma mi chiamava dal balcone dicendo che si era fatto notte e dovevo rientrare. Una settimana dopo le celebrazioni della festa dell’Immacolata iniziava la novena di Natale.
Con le mie sorelle e altri ragazzi andavamo nel bosco di Don Luigi Ciannelli per procurarci dei rami sempreverdi di mirto e riempivamo col muschio cassettine di legno con cui le nostre madri, assieme a noi piccoli, ornavano il presepe. La scatola dei pastori veniva ripresa dal fondo di un vecchio baule con tutte le statuine che erano sempre le stesse, molto espressive, di terracotta (non esistevano ancora quelle infrangibili). Nel nostro presepe non c’era un pastore tutt’intero, erano tutti monchi: a chi mancava un braccio, a chi la testa, a chi la mano per non parlare dei re magi i cui cavalli erano ridotti senza gambe. In compenso il lavoro era molto partecipato perché usavamo la cera liquida delle candele come collante e “azzeccavamo” i pezzi staccati.
Al mattino presto, alle 5 del mattino, con lo sparo della “botta” che faceva da sveglia, mia madre si alzava per andare alla messa della novena che si celebrava nella chiesa di Santa Restituta. Qualche volta ho partecipato anche io, mezzo addormentato e morto di freddo, rimanevo incantato dai canti natalizi. Dopo la funzione, tornati a casa, mi infilavo di nuovo a letto. Un rumore di passi pesanti annunziava l’arrivo degli zampognari che venivano a suonare davanti all’immagine di Gesù Bambino che mamma metteva in esposizione, vicino ai vetri, per l’occasione. Gli zampognari provenivano dal Molise e portavano come regalo un lungo cucchiaio di legno, usato poi per tutto l’anno. Durante il periodo natalizio l’atmosfera nel rione era molto calda e festosa. La sera in ogni casa si giocava a tombola e si sentivano gli schiamazzi e le risate per il commento dei numeri estratti della smorfia napoletana che venivano collegati a frasi allusive dai più smaliziati, in genere quelli più avanti in età.
Il gioco con le nocciole era il preferito nel periodo natalizio. I ragazzi giocavano con le nocciole a “castello”. Questo divertimento consisteva nel mettere a terra tre nocciole vicine fra loro e una quarta messa sulle tre; ogni giocatore ne metteva 4 a terra e poi da lontano, con una nocciola più pesante che fungeva da pallino, si doveva abbattere più castelli possibile. Le ragazze giocavano sempre con le nocciole “alla fossa”. In genere i partecipanti erano in grande numero, insieme alle ragazze c’erano anche persone adulte. Il gioco consisteva nell’avvicinare le nocelle il più possibile alla buca. Quando tutte le nocciole stavano intorno alla fossa bastava un grido: “abbàraone!” e tutti si lanciavano sulle nocciole. Silvestro di Norina con il suo vocione era uno specialista. Le ragazze, come lo vedevano apparire, già si preparavano a lanciarsi nella mischia per accaparrarsi più nocciole, con risate, spintoni e capriole per terra. Durante la ricorrenza natalizia si ufficializzavano i fidanzamenti tenuti “nascosti” per mesi o anni mentre altri nuovi sbocciavano.

Nella mia famiglia i preparativi erano febbrili, come in tutte le famiglie, qualche parente mangiava con noi il giorno di Natale. E che dire dei dolci natalizi, dalle paste reali alle cassatine, dai “mustaccioli” ai “susamielli”, ai “roccocò” ricchi di nocciole e bucce di mandarino che mia sorella maggiore, assieme ad altre ragazze, preparavano in casa e poi andavano al forno di “Mammin” a cuocere. Tutto ciò che si era conservato in estate veniva consumato in questo periodo: dai dolci fichi del contadino messi ad essiccare pazientemente al sole, alle varie verdure conservate sott’olio, dalle conserve di pomodoro ai dolcissimi pomodori “appesi”. Il vino d’annata veniva spillato e venduto direttamente nelle cantine.

La sera del 24 si “rappresentava” il Bambinello con il canto del Te Deum, si usciva in processione dalla casa con tutti i parenti con l’accompagnamento dei tric-trac e dei bengalini. Al rientro i più piccoli, in piedi sulla sedia, dovevano recitare la poesia di Natale, imparata a scuola, la ricordo ancora:

Ho sognato che il Bambino
venne presso il mio lettino
e mi disse dolcemente:
“Per Natale vuoi niente?”
Io pensai per prima cosa
a te mamma sì amorosa
a te babbo, buono tanto,
e gli dissi: “Gesù santo,
babbo e mamma benedici,
fa’ che sempre sian felici!”

Si stava tutti insieme fino all’ora di andare a messa ad assistere a quella di mezzanotte.
Dopo la celebrazione, accompagnato da motivi natalizi, veniva portato il “Santissimo” in processione per la Marina del paese con scoppi di “tric-trac” e coloratissimi fuochi d’artificio. Non mancava il rituale falò che sprigionava faville scoppiettando verso il cielo. Così vampate di calore si spandevano durante il rientro della processione. A fine cerimonia nascevano spontanei abbracci e baci con scambi di Auguri di buon Natale fra tutti i presenti. In questo momento svanivano vecchi rancori. E’ il caso di dire che il Natale rendeva tutti più buoni!

Ogni paese ha la sua mascotte

Penso che ogni paese abbia la sua mascotte. Lacco Ameno ne aveva più di una. La più simpatica in assoluto era “Marietta” più o meno coetanea di mia madre, era grossa e portava i capelli lunghi col tuppo. Era informatissima su tutti i matrimoni che stavano per celebrarsi in paese. Appena saputo che c’era in programma un matrimonio andava ad autoinvitarsi e ogni volta che incontrava i futuri sposi ricordava loro sempre il suo invito con la promessa di fare un bel regalo. Nell’organizzazione del banchetto si doveva mettere in conto un taxi e un tavolo esclusivo per Marietta. Il giorno fissato per le nozze Marietta faceva lo sciampo e asciugava i lunghi capelli ricci, molto folti, tutti bianchi al sole. Sia che fosse estate o inverno il posto dove si esponeva ai raggi era sempre lo stesso: al Capitello, sul sedile accanto al Crocefisso. Il giorno prima dello sposalizio si faceva togliere i peli superflui al viso da “Nannina a cecatella”. A volte capitava che c’erano due matrimoni nella stessa giornata e lei si divideva fra l’uno e l’altro per non far dispiacere nessuno. A fine banchetto si doveva preparare un pacchetto colmo di confetti e dolcetti che poi lei distribuiva alle persone del suo rione. Ormai era diventata una consuetudine: non invitare Marietta portava male!
Negli anni ’50 uno sposalizio era un momento importante per la vita del paese. Il tran-tran scorreva lento e la celebrazione era un avvenimento non consueto che creava movimento. Già tempo prima si spandeva la voce dell’evento. Il corteo partiva separatamente dalla casa della sposa e dalla casa dello sposo per arrivare in chiesa. Il promesso arrivava prima come avviene ancora adesso. La differenza consisteva nel fatto che negli anni ‘50 si andava tutti a piedi anche se uno degli sposi abitava nel punto più lontano del paese. Di taxi ce ne erano solo due in paese e uno di essi veniva richiesto solo quando gli sposi partivano per il viaggio di nozze. In tempi ancora precedenti non c’era l’abitudine di andare in viaggio. La coppia, subito dopo il rinfresco, si appartava nel nuovo nido per una settimana, uscivano solo la sera per andare a cena dai genitori. L’uscita ufficiale era la domenica successiva alla cerimonia quando i due partecipavano alla messa solenne nella basilica di Santa Restituta delle ore 11,00. Più tardi, per quelli che seguirono la nuova usanza di trascorrere la luna di miele in viaggio, di solito la destinazione era Roma con visita obbligatoria al Vaticano oppure Pompei. Se la sposa aveva già la “pancia” si andava a Pompei per sposarsi in presenza di pochi intimi. In caso la coppia avesse scarse risorse, Pompei era la meta preferita per dire il fatidico “sì”. A Lacco Ameno, la chiesa dove si officiava l’avvenimento era quella di Santa Restituta. Ore prima che la sposa fosse pronta per uscire in corteo, fuori all’abitazione c’era una piccola folla di bambini che si contendevano il posto migliore per raccogliere i confetti che si lanciavano come augurio alla sposa. Quelli della famiglia erano i più buoni con vere mandorle all’interno accompagnati da fiori o foglie d’arancio che abbondano nell’isola. In commercio esistevano vari tipi di confetti, oltre a quelli ripieni con mandorla, ce n’erano altri più economici. Ma a quell’epoca, per noi bambini, anche quelli di qualità inferiore, molto duri, andavano bene, rappresentavano sempre una leccornia.
Dopo la cerimonia la coppia di sposi conduceva il corteo seguita dagli invitati. Avanti c’erano tutti i bambini del paese e anche persone adulte che aspettavano il lancio dei confetti. Avvenivano vere lotte specialmente fra i più grandi che non esitavano a prendersi a botte mentre noi piccoli avevamo la meglio perché ci infilavamo più facilmente fra le gambe degli sposi e degli invitati. Il gioco divenne più duro quando insieme ai confetti cominciarono ad apparire le monete. Gli scontri erano furibondi fra adulti, sembrava una lotta di sopravvivenza fra cani rabbiosi, la strada diventava un’arena. Mi ricordo di qualcuno che ebbe qualche dente rotto! Bene o male si conoscevano i tipi più sanguigni che venivano facilmente alle mani. Bastava essere guardinghi e sapere aspettare il momento giusto: la strada come scuola di vita!
Dopo la cerimonia gli sposi andavano a casa di uno dei due che aveva una stanza più ampia per ricevere gli invitati. Non c’era l’abitudine di servire un pasto caldo ma si usava offrire fette di pane o pagnottelle sfornate dal forno a legna con dentro l’immancabile formaggio “provolone” o la soppressata, salame, ventresca, prosciutto delicatissimo tagliato a filo di coltello ottenuti dal maiale appositamente cresciuto o acquistato a pezzi in occasione delle future nozze. Un giro di dolci, la torta nuziale con spumante e il rituale giro di confetti concludeva il banchetto nuziale. Tavoli, sedie, piatti ecc. venivano dati in prestito dai vicini. A volte c’era qualche parente che suonava la chitarra o la fisarmonica e allora il divertimento era assicurato e si ballava fino a tardo pomeriggio e l’allegria coinvolgeva tutto il vicinato specialmente se il rito capitava in primavera quando il rinfresco veniva servito all’aperto sotto un pergolato di glicine o di rose. La musica e il buon vino genuino accendeva gli animi dei giovanotti presenti e le ragazze o donne maritate a cui piaceva la musica e il ballo. I ragazzi aspettavano quelle occasioni per sfiorare una donna e in quei momenti di euforia diventavano più audaci, abili ballerini che, come in un sogno, avevano fra le braccia ragazze che non si sarebbero mai lasciate toccare in altre occasioni. In particolar modo quando il suono della fisarmonica accennava un tango, allora il ritmo intrigante coinvolgeva le coppie che, dimentiche del pubblico presente, grazie a un genuino bicchiere di nettare degli dei, si lasciavano trasportare sensualmente dal ritmo galeotto. A questo punto il marito o il fidanzato geloso, nel vedere la sua donna stretta fra le braccia di un altro, andava in escandescenze fra le risate e le urla dei presenti entusiasti dell’inaspettato spettacolo.
Capitava anche il risveglio di amori finiti male a seguito di matrimoni combinati da genitori per svariati interessi. In paese si parlava di una ragazza molto bella e determinata alla quale bastò uno sguardo furtivo di un suo vecchio spasimante, presente fra il pubblico, al momento del sì sopra l’altare, per piantare in asso l’uomo impostole e scappare via, lasciando tutti i presenti sbigottiti. Anche questo capitava all’inizio del ‘900!!!

Le pecore scampanellanti

Un altro momento di gioia era verso sera quando arrivava Pasquale, il capraio, con le sue numerose pecore scampanellanti: Ciurella, Ngiulina, Ninnella, Ginetta, Nanninella a’ngazzosa, Ricciulella, Pupatella e via dicendo. Lui raccontava che erano nomi di donne da lui conosciute e a chi per omaggio e a chi per sfregio aveva dedicato il nome a seconda del tipo di pecora. Tutti noi bambini andavamo da lui con 10 lire e una fetta di pane per farci fare una spremuta di latte sul pane; quello di Ricciulella era il più saporito e schiumoso. Vincenzo, piccolo ed agile com’era, riusciva a infiltrarsi e mimetizzarsi fra le pecore e oltre a farsi la sua spremuta gratuitamente si faceva la succhiata a sbafo direttamente dalla pecora. Proprio per la sua audacia era ben voluto da tutti. Anche Pasquale faceva finta di non vedere. Un altro momento eccitante era quando arrivava il camioncino del ghiaccio che approvvigionava la “puteca e Luretina”. Come Giacinto, il conduttore, scendeva le scale delle baracche per consegnare la merce, noi, come topi voraci vicino a un pezzo di formaggio, assalivamo il camioncino. Armati di pietre ci davamo da fare vicino alle forme di ghiaccio per recuperarne un pezzetto per poi farne una granita al limone, inseguiti dalle grida di Giacinto che ci correva dietro.
Proprio all’inizio dell’estate Vincenzo si ammalò e per parecchio tempo non lo vedemmo in giro. Io che passavo più ore con lui che a casa mia ci soffrivo parecchio, per me era come un fratello, quel fratello che non avevo. Lui aveva un fratello e una sorella più piccoli. La mamma gli era morta alla nascita della sua sorellina e quindi l’aveva goduta per poco. Il padre era pescatore presso la “tonnara” e una zia non sposata (zi’Tutina), sorella della madre, li tirava su come poteva. I due più piccoli, al contrario di Vincenzo, erano tranquilli e docili, di poche parole e il rione li aveva un poco adottati. A volte Vincenzo mangiava a casa mia, altre volte andavo da loro: abitavamo così vicini e mi ricordo che a casa sua si mangiava sempre pesce che il padre portava quasi ogni sera. Zi Tutina li sapeva cucinare in tutte le maniere: all’acqua pazza, al sugo di pomodoro e peperoncino oppure lessati pieni di succo di limone, a volte con aceto e per tutta la casa c’era un odore molto forte di menta, d’aglio e di origano. Sembrava che il mangiare da loro fosse più buono del mio. A mia madre lui chiedeva sempre il minestrone fatto di tante verdure e pasta oppure quando mamma faceva i panzarotti lo vedevi arrivare prima che incominciassero a friggere, era una festa!
Quell’estate la salute di Vincenzo vacillò; lui che era il più forte, il più agile, nel giro di poco tempo si ammalò gravemente. Le grida spaventose, disumane arrivavano sopra casa mia e invadevano il rione, la gente si riuniva sotto il portico buio di casa sua che dava sulle baracche. Nessuno sapeva cosa fare. Mia madre e la “Russulella” con la figlia più grande stavano sempre a casa di Vincenzo, mattina e sera, io e le mia sorelle passavamo le giornate dalla famiglia della “Russulella”. La vecchia Caterina e mast’Alamo si spostò, di sera, con tutto il gruppo di preghiera del rione sotto il portico della casa di Vincenzo per la recita del rosario. Il medico, maestoso e barbuto, col bastone, veniva quasi tutti i giorni e penso che anche lui non sapesse cosa fare. Una volta durante la malattia chiesi a mia madre se potevo vedere Vincenzo, dopo tante insistenze mi concesse di entrare presso l’amico insieme a lei. Rimasi atterrito dallo sguardo dei suoi occhi enormi che mi fissavano senza dire una parola. Ne fui così scioccato che durante la malattia non chiesi più di vederlo. Vincenzo gridava, si lamentava, invocava la mamma morta chiamandola mammarella affinché lo venisse a prendere. Per la prima volta sentii parlare delle sanguette che erano specie di vermi neri che gli mettevano sopra le spalle per tirargli il sangue, allora le grida erano ancora più disperate. Una mattina, appena svegliato, mia madre mi disse che Vincenzo, alle prime ore del giorno, se n’era andato in Paradiso dalla mamma. Anche se ci avevano preparati nel dirci che Vincenzo in breve tempo sarebbe tornato dalla mamma, la notizia fu uno shock enorme per tutti i ragazzi del rione perché lui era il più audace, il più combattivo. Mi ricordo che tutte le ragazze col vestito bianco della prima comunione, tantissimi ragazzi più grandi di noi col grembiule scolastico, anche se era estate e le scuole chiuse, tutti si recarono in processione lungo via C. Colombo che è lunga e stretta fino alla chiesa della parrocchia. Le ghirlande erano fatte con fiori di oleandro bianco. L’odore intenso e nauseante di quel giorno d’estate mi ha perseguitato per tantissimi anni. Non partecipai al corteo perchè troppo piccolo ma potevo seguirlo da casa benissimo. Specialmente riuscivo a vedere molto bene la marea di partecipanti arrampicarsi per l’ultimo tratto della salita come un serpente strisciante fin su Montevico. Qui alla vista della bara, il suono della campanella della torre saracena, da cui è ricavato il cimitero, sembrava dicesse: “vientenn che si arrivat”!
Anche l’asino di Ciccione che tornava sopra Mezzavia con quell’aria pacata e lenta sembrava triste e ogni tanto si girava indietro perché non c’era Vincenzo a tenergli la coda. Durante il percorso buttarono dei confetti sulla piccola bara bianca che nessuno raccolse mai… In altri momenti i ragazzi si sarebbero azzuffati per accaparrarseli. In quell’occasione rimasero a terra!