L’acconciatian e non solo

A Mezzavia il mio punto di riferimento era la famiglia della “Russulella” il cui capo famiglia Pasqualino era pescatore e possedeva una barca e 4 figlie femmine: 2 more (Assunta e Restituta) e due bionde (Nannina e Consiglia) che erano bellissime coi capelli e gli occhi chiari e una voce suadente. Cantavano nel coro della parrocchia e rappresentavano sempre la Madonna quando si faceva il presepe vivente nel periodo natalizio o qualche recita nel paese. Proprio per mancanza di figli maschi in famiglia mi adottarono, in un certo senso, anche perché mamma aveva fatta da madrina di comunione a una delle figlie che fino a tarda età cantava l’Ave Maria di Schubert in occasione di matrimoni. Le ragazze erano molto più grandi di me. Ognuna di loro, come la mamma, aveva una bontà innata. Passavo molte ore a casa loro dato che quel vicolo era il più popolato da bambini della mia età. Anche Vincenzo stava sempre con me e si godeva la protezione delle sorelle ma lui era molto più smaliziato di me. In questo vicolo si fermavano tutti gli artigiani dell’epoca che venivano da Napoli o dall’entroterra napoletano. L’acconciaombrelli: era secco e lungo, proprio come il manico d’ombrello di don Luigi Ciannelli che abitava nel palazzo sovrastante il rione di Mezzavia. Don Luigi me lo ricordo sempre lo stesso, coi capelli grigi, diritto come un fuso, col vestito e cappotto nero e l’immancabile ombrello: molto british. A pochi metri lo seguiva la moglie piccola e curva, non si fermavano a parlare mai con nessuno. Si diceva che fosse imparentato con Luisa Nesbitt, grande benefattrice, a cui era dedicato un vicolo delle baracche di Mezzavia. Anche “l’acconciatian” si fermava qua, nello spazio antistante la casa della “Russulella”. Di fronte c’erano delle baracche diroccate e Pasqualino le aveva pulite per bene: oltre a tenerci un recinto per le galline e un bosco di basilico, aveva ricavato uno spazio per stendere il bucato. In quest’area si accomodavano i vari artigiani di passaggio. Quando arrivava “l’acconciatian” lo spazio si riempiva di piatti colorati, spaccati, di tutte le dimensioni, molti di essi avevano già una riparazione precedente: “tiani” marroni di creta che servivano per cucinare il coniglio all’ischitana. Essi venivano usati la domenica anche per cuocere il ragù. C’erano “arciuli” per il vino che qualche bevitore, sbadato oppure annebbiato, aveva fatto cadere sul pavimento; “scafaree” per fare la conserva di pomodoro o condire le olive; cufunaturi (tinozze di terracotta) di varia grandezza, piccoli, medi, grossi, generalmente venivano usati per lavare i panni. Questo tipo di vaso di terracotta, a forma di tronco di cono, largo sopra e stretto sotto indicava anche la forma di un sedere di una ragazza che oltre ad essere a forma di pera o di mandolino come “Lillina” poteva essere “comm nu cufunaturo” se era esageratamente largo e tozzo. Questo vaso di terracotta veniva usato per lo più per fare la “colata” o per insolfare la paglia. La “colata” era un rito lungo e faticoso: c’erano “e lavannare” che godevano di ottima salute e andavano in giro a fare il bucato per tutto il paese. Le lenzuola venivano insaponate con sapone cremoso di Marsiglia, di poi lasciate in bagno per una notte, sciacquate e sistemate nei “cufunaturi” che avevano un buco laterale alla base. Il tutto veniva coperto da un telo spesso detto cenerario. Separatamente si bolliva dell’acqua con dentro varie foglie di piante profumate come il lauro o foglie d’arancio, bucce d’uova e cenere; a fine bollitura si rovesciava il tutto nel “cufunaturo” e lentamente l’acqua penetrava nella tina sbiancando e purificando. Dopo la pausa notturna, si toglieva il tappo dal buco e l’acqua fuoriusciva, ancora un’ulteriore sciacquata e la biancheria veniva stesa al sole.

Parte della baracca diroccata veniva usata da Raffaele e’ Cristina che confezionava scope con delle corde chiamate “e riest”. Qui aveva tutte le attrezzature necessarie per la sua attività. Queste corde doppie erano grossolanamente aggrovigliate fra loro, di colore verde somigliavano ai rotoli di crine per materassi. Raffaele prima di usare le corde le teneva per circa una settimana a mollo a mare, attaccate con una fune alla banchina, di fronte al Fungo. Alla fine la corda non era più ispida e pungente, i fili a contatto con l’acqua diventavano morbidi e facili da manovrare. Con mano esperta e veloce li avvolgeva intorno a una mazza e li stringeva con una corda in fili alternati sulla sommità dove poi veniva inserita una canna, come ultima operazione tagliava il superfluo. Raffaele lavorava alla tonnara, la moglie e i figli l’aiutavano a confezionare scope e scopini per i pitali. Dalla sua famiglia si approvvigionavano tutte le massaie di Lacco Ameno. Fornivano i vari empori del paese e dell’isola. Con l’avvento delle scope di saggina e poi quelle di plastica l’attività di Raffaele scomparve.

La palura di Mezzavia

La palura era gestita in modo efficiente e intensiva dalla famiglia di “P’ppin” e “Filumena”, donna piccola e severa con numerosi figli. Bravissimi erano Alissandr e Lionor che a fine estate andavano per tutti i rioni di Lacco Ameno a spurgare i pozzi neri al grido di “iamm cu a tricofilina”, caricavano sull’asino il contenuto dei pozzetti che non puzzavano come adesso. Come raccontato precedentemente non tutti erano disposti a cedere i resti delle fosse settiche perché molti li adoperavano come concime nel pezzo di terra che coltivavano a vite oppure a ortaggi. Alissandr allevava, coi suoi familiari, anche galline e polli, maiali e conigli. Di concime ne aveva tanto ma mai abbastanza per quanto era il terreno da coltivare. Solo da loro i cavolfiori e le cappucce crescevano rigogliosamente. Le nostre mamme ci dicevano che noi bambini eravamo nati sotto una “cappuccia”. Al ritorno dall’asilo, passando per la palura, indicavamo quella da cui eravamo nati; le cappucce erano verdissime all’esterno e quasi bianche all’interno. I pomodori per l’insalata erano grossi come “cape e criature” ed erano saporiti come prosciutto crudo dolce, diceva P’ppin. Per fare ”e’piennul” i pomodori col pizzo erano i più richiesti perché si conservavano più a lungo; servivano per condire d’inverno le insalate con patate lesse, “scarola terciute”, per il coniglio all’ischitana e mille altri usi. I pomodori detti “ceraselle” venivano usati per fare la salsa da conservare nelle bottiglie. Vincenzo era il più audace di noi tutti, mangiava i pomodori come fossero albicocche e riempiva lo stomaco al ritorno dall’asilo. Anche le melanzane venivano prodotte in grandi quantità e conservate sott’olio. I peperoni rossi, verdi, gialli oltre che a consumarli al momento venivano conservati anch’essi.
In un angolo della palura c’era una noria con un asino legato con assi ad una ruota che girava intorno al pozzo termale. Intorno alla ruota c’erano dei secchi che pescavano l’acqua dalla fonte calda e la versavano in una vasca chiamata “pischera”. Le donne di Mezzavia, col permesso di P’ppin, andavano a lavare i panni nell’acqua calda senza l’uso del sapone. Quest’acqua toglieva veramente le macchie impossibili specialmente quelle di cacca di noi piccoli. A sera, quando l’acqua della pischera s’era raffreddata, P’ppin tramite una canalizzazione da lui architettata inondava tutta la palura, facendo attenzione a che l’acqua non bagnasse le radici degli ortaggi. Quell’acqua successivamente fu utilizzata, per i suoi poteri terapeutici, a curare gli acciacchi dei turisti accorsi sull’isola da tutto il mondo.
Alle palure si approvvigionavano sia le famiglie di Mezzavia che quelle dell’Ortola comprando i pomodori per fare la salsa da conservare. Anche questo lavoro era un rito. Ogni componente della famiglia svolgeva un ruolo. Noi bambini dovevamo portare le bottiglie vuote in riva al mare per pulirle con sabbia e “vriccilli”. Agitando il tutto con l’acqua di mare le impurità presenti nelle bottiglie andavano via. Dove la salsa dell’anno precedente aveva formato delle incrostazioni adoperavamo rami di mirto. Le bottiglie erano preziose perché scarseggiavano: il più delle volte erano bottiglie vuote che mio padre portava in grossi sacchi di juta dalle navi quando sbarcava. Erano di colore verde scuro, rosso intenso, marrone, dalle forme più strane, quadrate, rettangolari, allungate ma tutte robuste e portavano scritte in tutte le lingue. Forse questo è stato l’inizio della mia passione per le lingue straniere: bottiglie di Cointreau, di Porto, Chartreuse, champagne, cognac, whisky, gin, guai a romperne una, erano botte! Anche in queste occasioni Vincenzo metteva in crisi le mie sorelle o altri ragazzi nascondendo le bottiglie e mandandole a fondo lontano dalla riva dove noi piccoli non potevamo andare non sapendo nuotare. In questo caso era qualcuno più grande che le recuperava. Dopo averle lavate tornavamo a casa e le bottiglie venivano risciacquate con acqua dolce e messe a scolare in delle ceste lunghe di legno.
Per strada non avresti trovato mai un secchio rotto, fuori uso: questi recipienti venivano usati per piantare basilico, piperna, maggiorana o rosmarino. Adesso che ci penso non passava il camion della spazzatura, c’era solo uno spazzino che puliva le strade. Ogni baracca aveva davanti all’ingresso “u nanzporta” (porticina di legno davanti all’ingresso per tener lontano gli animali) e montagne di piante aromatiche che venivano bagnate con la poca acqua che era servita a lavarsi la mattina o con l’acqua della pasta. Le piante di basilico erano interrate nei “cufunaturi” (tine di terracotta) fuori uso, ormai irrecuperabili, in orinai di zinco, in cantarielli; tutto veniva riutilizzato. Mai viste zanzare. D’estate tutti dormivano con le finestre o porte aperte, la privacy era protetta da una tenda. Tutti sapevano tutto di tutti. Era una grossa famiglia anche se, come in ogni famiglia che si rispetti, non mancavano “appicichi” e “chiaitamienti”. C’era Vincenzo che a volte creava delle situazioni per far bisticciare due donne, specialmente se sapeva che una delle due era un po’, come si suol dire, un tipo irascibile. Le questioni succedevano sempre d’estate. Nonostante gli insulti e le botte, nel tardo pomeriggio, le donne che al mattino s’erano azzuffate si ritrovavano sui gradoni della casa di Catarina “e mastalamo”, assieme a grandi e piccini per la recita del rosario.

L’appartamento di C.Colombo

L’appartamento si affacciava su via C. Colombo, anche qui il panorama che si godeva era un incanto. La veduta di Montevico era quasi completa, era interrotta solo in un lato dall’edificio scolastico fatto innalzare da Mussolini. A mezzogiorno, quando eravamo a tavola, si godeva l’ampia vista di Varulo con le barche a remi o a vela che solcavano il mare, altre che sostavano coi tendoni stesi per riparare dal sole i pescatori intenti a svolgere i loro lavori. Questo panorama idilliaco sono sicuro abbia influenzato il carattere pacato degli abitanti di Lacco Ameno.
Sotto, di lato, in via C. Colombo abitava il mio amico Vincenzo che era di qualche mese più grande di me. Andavamo assieme all’asilo e come tutti i bambini del rione Mezzavia andavamo da soli a scuola, i genitori ci controllavano con lo sguardo da lontano. All’asilo il nostro gruppo era affidato a Suor Gigliola, giovanissima e dolcissima suora di origine veneta. A quell’epoca i Veneti erano un po’ come i meridionali, espatriavano in cerca di lavoro. La suora era poco più alta di noi, la consideravamo come una sorella maggiore, si rotolava per terra, ci insegnava la dottrina e i primi rudimenti della scrittura. In cucina c’era Suor Gioconda, veneta anche lei, già il nome era indicativo, era mastodontica, con gli occhi verdi di gatta e con voce roca minacciava noi bambini col mestolo: se non avessimo mangiato il piatto, avrebbe mangiato tutto lei! Figuriamoci, con la fame che c’era, mangiavamo il tutto in quattro e quattro otto.
L’asilo si trovava nell’attuale municipio di Lacco Ameno e la veduta da via C. Colombo a piazza Santa Restituta era completamente libera. In questo spazio si trovava la “palura” che era un terreno pianeggiante che si estendeva dal palazzo Ciannelli di via C. Colombo fino a piazza S. Restituta. In seguito in quest’area il commendatore Angelo Rizzoli, nuovo proprietario, costruì la “casa rosa” per il personale degli alberghi, il night club “O Pignatiello”, il garage con sopra ancora camere per il personale, una giostra, 2 campi da bocce, 2 campi da tennis, 18 piste di mini-golf, la fangaia, il cinema Europeo, l’Albergo “la Reginella” con annesso stabilimento termale.
Anche la palura apparteneva precedentemente ai Calise Piro che erano proprietari praticamente di quasi tutta Lacco Ameno: dalla Marina fino al Fango. A quell’epoca il paese contava 2500 anime. Le famiglie venivano indicate non per cognome ma per soprannome come: “capemorte”, “pescetata”, “c…lasn”,”cularuss”, “ciccione”, “spogliacrist”, “pacione”, “ciacione”, “capepurp”, “capemurena”, “u’chiacchiarone”, “c…efierr” e tanti altri nomi molto pittoreschi. I nomi e cognomi erano tutti uguali, non solo nella nostra famiglia. Di Giuseppe De Siano, nel paese di Lacco Ameno, se ne contavano sei: 4 cugini e questo ci provocava una crisi di identità. In compenso rinnovando i nomi potevi risalire facilmente al ceppo originario di ognuno di noi. Il soprannome della famiglia di mia madre era “ambruos”, quello di mio padre “u’cacciator”.

Un ricordo indelebile è u’ciuccio e Ciccione.
Ciccione abitava nella località “Sopramezzavia” con la sua tribù di figli e nipoti. Avevano un asino chiamato “baston” che scendeva con il capofamiglia in paese per fare gli approvvigionamenti per la numerosa prole e di conseguenza passava sotto casa nostra in via C. Colombo. A scendere, l’asino era accompagnato dal padrone, a salire l’asino tornava da solo perché Ciccione si fermava a fare una partitina a carte con gli amici, tanto il carico dell’asino nessuno mai l’avrebbe toccato e “baston” ormai conosceva la strada. L’unico ostacolo poteva essere Vincenzo che, come lo vedeva, gli andava incontro, lo teneva per la coda per un bel tratto e poi tornava indietro, mentre l’asino continuava il suo percorso.