Il Juke box

Dalla tenda del mio balcone vedevo la motonave “Ischia” lunga come un serpente che rompeva con la prua diritta il mare calmo, creando una scia di schiuma bianca. Davanti a noi in lontananza c’era il palazzo dei Calise Piro che ostruiva, parzialmente, la vista del mare e attraverso il tetto di questo edificio intravedevo prima il fumo, poi il fumaiolo e poi velocemente la nave tutta ma a pezzi che andava ad attraccare al pontile di Lacco. Questa nave era utilizzata per la linea Napoli – Ischia da poco tempo perché era stata adoperata durante l’ultima guerra e quindi rimessa a nuovo. Con lei volava la mia fantasia e il desiderio di andare in America per conoscere il mio tanto amato zio Giuseppe che scambiava un’intensa corrispondenza con mia madre, sua sorella minore. Ogni volta che mia madre apriva la lettera ci trovava un dollaro. Anche la voglia di vedere mio padre era fortissima perché faceva viaggi di lungo corso, mi sarebbe piaciuto conoscere quelle città che lui tanto decantava: Marsiglia, Baltimora, Curaçao, Tokyo, Bangkok e tante altre destinazioni. Il piroscafo Ischia arrivava di pomeriggio ed era atteso dai pescatori della “tonnara” che l’aspettavano sulle barche ormeggiate all’ombra del “Fungo” per consegnare il pesce pescato che sarebbe stato trasportato sul continente.
Mia madre aveva ricevuto, grazie a un parente di ritorno da una visita ai fratelli “americani”, come regalo una radio che nessuno possedeva nel rione di Mezzavia. Nei pomeriggi primaverili o la domenica, la radio trasmetteva un programma di “Musica leggera”. I giovani di Mezzavia e del rione Ortola, si riunivano nello spiazzo in terra battuta sottostante il nostro balcone, chiamavano a gran voce Rosà (Rosanna, mia sorella) metti la “Luna rossa”, “O surdato ‘nnammurato”. Tutte richieste a mo’ di Juke box. Qualsiasi motivo di canzone capitasse, col volume al massimo, tutti cantavano a squarciagola con immensa gioia e allegria; altri si muovevano con maestria, scalzi, al ritmo della musica: dal Mambo al Boogie Woogie dalla Samba al Charleston. La più scatenata di tutti era Annarella “a iatta morta”: le avevano dato questo appellativo perché era indolente e se ne fregava di tutto ma quando ballava diventava un’altra persona, la musica si impossessava del suo corpo, specialmente il boogie, non la tenevi più. Non erano solo i ragazzi e le ragazza giovani a ballare ma anche persone non più giovani che qualche anno prima avevano ballato questi nuovi balli con gli Inglesi e gli Americani. Anche se ero poco più che un bambino, ero così incantato da questo spettacolo da voler che la musica non finisse mai per vedere ballare all’infinito Lillìn “cul a mandulin” che imitava alla perfezione Silvana Mangano ballare nel film “Riso amaro”.

Questi erano i momenti belli e spensierati perché la stessa radio, d’inverno, ci teneva incollati ad essa insieme ad altre persone di Mezzavia e altre che giungevano da altri rioni di Lacco. Molti di esse avevano mariti, figli, genitori come il mio che navigavano. La stanza, dov’era sistemata la radio si riempiva di persone infreddolite e bagnate dalla pioggia. In quell’occasione mamma preparava tè caldo che mio padre portava dai viaggi ed era ancora avvolto in dei sacchetti di panno di colore beige. La nostra casa si trovava al terzo piano del livello del rione. Quando c’era il vento di tramontana, il forte vento ululava attraverso gli spifferi che non riuscivi mai a eliminare nonostante i sacchetti di sabbia e di segatura confezionati per l’occasione. Era terrificante ascoltare per radio, con attimi di pausa interminabile, dopo il segnale orario delle 20,00 la sigla del Radiosera. Già la sigla incuteva ansia e attesa spasmodica. La paura, il terrore aumentava quando c’erano dei naufragi: quante navi spezzate in due come fuscelli, capovolte o peggio ancora affondate! Allora quell’apparecchio, che tanto amavi di giorno quando trasmetteva musica, diventava un tutt’uno col mare agitato e l’ululato del vento. Non c’era settimana che non comunicasse naufragi, specialmente d’inverno. Le chiese dell’isola ed in particolare la sacrestia della basilica di Santa Restituta erano piene di quadri votivi che rappresentavano un piroscafo semi affondato, con volti disperati di naufraghi che nuotavano fra onde gigantesche. Altri quadri, lasciati per grazia ricevuta, riportavano le immagini di persone e sotto le loro foto scafi della nave superstite. Ma tanti volti non sono stati mai rappresentati perché né i corpi né le navi sono stati mai recuperati.

Ischia prima di Rizzoli

E’ difficile spiegare oggi come facessero gli isolani a sopravvivere senza acqua corrente negli anni precedenti la venuta di Angelo Rizzoli sull’isola d’Ischia. Anche qui provo a spiegare quel momento storico attraverso la mia esperienza.
Come detto in precedenza, dopo il terremoto del 1883 il grosso degli abitanti di Casamicciola, Lacco Ameno e Forio furono sistemati in delle baracche di fortuna. Non c’erano pozzi di raccolta d’acqua comune e l’unica fonte potabile e libera per l’approvvigionamento era quella del “pisciariello” in via IV Novembre. Con l’uso quotidiano di quest’acqua gli abitanti di Lacco Ameno si distinguevano dagli altri isolani per il colore scuro dei denti per la composizione di essa. Si diceva che i lacchesi avessero i denti “cacati”. Nei rioni ci si arrangiava. I proprietari delle case che non avevano subito danni dal terremoto mettevano a disposizione le loro cisterne d’acqua piovana al fabbisogno dei vicini. L’acqua era un bene prezioso! Molto spesso erano presenti, presso privati, delle sorgenti d’acqua leggermente salata ma buona per qualsiasi uso domestico e molti attingevano l’acqua a queste fonti. L’acqua del “pisciariello” con un sol rubinetto disponibile doveva soddisfare la sete di tutti i locali e, d’estate, anche dei turisti che stavano in fitto. Nacquero così le acquaiole che si recavano alla fontana per attingere acqua: la più conosciuta era Chiarina, piccolina, ben piantata, che era capace di trasportare, senza fermarsi per strada, un’anfora in testa e due sui fianchi colme d’acqua. Con le mance ottenute da questi servizi Chiarina tirava avanti la sua famiglia. Molto spesso succedevano scontri nella fila per approvvigionarsi. Bastava un movimento incauto e le anfore si rompevano per non parlare dei boccioni di vetro che al minimo contatto si frantumavano in mille pezzi. Allora le zuffe erano violente e pericolose specialmente per i vetri rotti, molti di noi eravamo scalzi. Quando tornavi a casa senza bottiglie o anfore (mummule e lancelle) ti aspettava un caloroso “paliatone” dai tuoi genitori senza sentire ragioni.

All’esterno di ogni baracca c’era un pozzetto nero dove venivano scaricati sia i “pisciaturi” (orinali) che i “cantarielli” (vaso per solidi). Ogni anno a fine settembre passavano “Alissandr” e “Leonora” che al grido di “iamm cu a tricofilina” (era il nome di una marca di brillantina profumata per capelli) svuotavano in allegria i pozzetti biologici di cui non tutti erano disposti a dare via il contenuto, dal momento che ognuno aveva un orticello ed esso serviva loro come concime. Le famiglie erano molto numerose e capitava spessissimo che i pitali fossero insufficienti allora si andava a fare i propri bisogni all’aria aperta, in qualche vicolo abbandonato, nel terreno circostante e molto spesso sugli scogli o sulla spiaggia. Per non attirare mosche o spandere il puzzo, gli escrementi venivano coperti con della sabbia o terreno. Non di rado capitava che ci andassi con il piede dentro e affiorava tutto fra le dita dei piedi. Una sera, mentre mi trovavo con altri bambini a casa di don Luigi, il parroco, fui colto da un bisogno impellente di andare in bagno, qualcuno mi mostrò il servizio dove non ero mai stato prima. Accesi la luce e, meraviglia delle meraviglie, la stanza era enorme, tutta bianca dalle pareti ai pavimenti. In un lato c’era una vasca di marmo chiaro e tutt’intorno dei vasi di porcellana bianca che fuoriuscivano dal pavimento. Non sapevo quale di essi usare, ai miei occhi sembravano tutti uguali con la differenza di uno vaso che era coperto, usai quello col coperchio. Quando mi liberai, bastò abbassare una leva e tutto ritornò al bianco originario. Fino a un momento prima mi consideravo fortunato perché il “bagno” di casa mia era fuori al terrazzo, in una casupola con vista mare, a differenza degli altri che l’avevano in un buco fuori l’uscio di casa. Fu quello il mio primo incontro con una sala da bagno!

1883, il terremoto

Il terremoto del 1883 ha frenato lo sviluppo turistico e l’evoluzione naturale dell’isola d’Ischia. Famiglie intere emigrarono verso le Americhe. Il paese si spopolò, rimasero poche famiglie e tante persone anziane. La ripresa era molto lenta. Si viveva di pesca e quello che si riusciva a ottenere dalla campagna. In compenso, specialmente noi di Lacco ci sentivamo avviluppati, avvolti nella tranquillità antica che il paesaggio tutto emanava. Questa tranquillità protetta, impenetrabile, era data anche dalla conformazione morfologica del posto. Il monte Epomeo, dominando il paese, mi ha sempre ricordato un quadro che campeggiava nel refettorio dell’asilo in cui era raffigurato un maestoso Gesù Cristo seduto sotto un grosso albero, con le braccia aperte e in grembo i bambini di ogni colore e razza, la didascalia diceva: lasciate che i pargoli vengano a me. L’Epomeo, come Cristo in quel quadro, abbraccia completamente il paese di Lacco Ameno da Est a Ovest. Questo abbraccio mi trasmette ancora serenità e sicurezza. In gioventù restavo per lunghi periodi all’estero, quando mi prendeva un po’ di nostalgia, bastava dare uno sguardo a delle cartoline di Lacco che avevo con me per superare quel momento di scoramento e sentirmi di nuovo caricato e rinfrancato.

A seguito del terremoto molte famiglie di Lacco Ameno rimasero senza abitazione e gli sfollati furono sistemati in baracche, dette beneventane, nelle zone che non ebbero particolari danni. Queste zone divennero gli attuali rioni: il Capitello che è all’inizio del paese, venendo da Casamicciola. Più a monte il rione di Lacco di sopra, i cui abitanti vivevano esclusivamente di agricoltura. Il rione Mezzavia dove c’erano agricoltori e pescatori ed in fine, alle spalle della chiesa di Santa Restituta, il rione Ortola, il più popoloso dei quattro, composto per la gran parte di pescatori.
Ogni rione rappresentava un guscio di protezione per ogni ragazzino, era un’unica grande famiglia. La mia casa, che era in fitto, si trovava fuori dal nucleo delle baracche, in via C. Colombo. L’appartamento era in posizione molto strategica, dal punto di vista panoramico, ciò non toglie che ci sentivamo precari perché il padrone di casa la chiedeva indietro a meno che non dessimo un aumento. Ancora oggi è rimasto quasi intatto. Solo il panorama è cambiato. A Nord c’era un ampio balcone, dove all’inizio del periodo estivo mi creavo la mia capanna con qualche pezzo di stoffa “americana”. Un mio zio, emigrato a Brooklyn, puntualmente ogni anno mandava un pacco, dove metteva dentro tanti vestiti di raso lucido da donna molto eccentrici che mai nessuno poteva utilizzare sia perchè la taglia non corrispondeva a nessuno in famiglia, sia perché erano troppo eleganti e non c’era l’occasione per sfoggiarli. Se uno avesse indossato uno di quegli indumenti sarebbe stato rinchiuso in manicomio oppure preso in giro per strada. Mamma molto sapientemente riusciva a ricavarne pigiami, gonne, camicette, sottanine per le mie sorelle. Ricevere un pacco era una gioia immensa. Esso era avvolto in una stoffa bianca con ceralacca rossa o nera come sigillo. Le mie sorelle erano eccitatissime perché tra gli indumenti trovavamo qua e là dei cioccolatini tipo baci perugina in miniatura che ci procuravano un grande piacere oppure delle barre di cioccolato con l’involucro marrone dal gusto unico, che mi è rimasto impresso per tutta la vita. Da considerare che all’epoca una barretta di cioccolata era pura utopia. Le mie sorelle erano considerate delle fortunate perché c’era sempre una sorpresa per loro. Una volta in uno dei pacchi, avvolte per bene nella stoffa, zio Giuseppe aveva nascosto due bambole di gomma, una coi capelli neri e l’altra con le trecce bionde, che capovolgendole lentamente emettevano un suono. Queste bambole divennero presto delle reliquie, anziché giocarci, le mie sorelle le custodirono gelosamente fino a prima di sposarsi. Ci sentivamo veramente dei privilegiati. Anche per me c’era sempre una sorpresa. Uno dei miei cugini faceva “da comparsa” in film americani, mi arrivava anche qualche pistola finta, oppure a volte un pallone. Una volta addirittura ne ricevetti uno di quelli ovali da rugby, con camera d’aria e gonfiatore, ma restò inutilizzato perché nessuno ci sapeva giocare. Più tardi ne ricevetti un altro, coloratissimo del tipo super-flex, che sobbalzava appena lo toccavi. Un tiro un po’ più forte e ci sfuggì dalla presa, in un attimo andò a finire sotto l’autobus, l’unico che passava per il paese!