Il mio primo stipendio

Erano gli ultimi anni di navigazione di lungo corso, mio padre contava gli anni per godere la sua pensione. Aveva iniziato a lavorare giovanissimo già da quando, bambino, coi suoi fratelli dovevano sostentarsi per la sussistenza all’orfanotrofio.  Faceva progetti per come investire la liquidazione. Ischia era in pieno sviluppo turistico ed economico, qualsiasi iniziativa intrapresa avrebbe avuto successo: importante era l’impegno e la volontà di riuscire! Purtroppo non sempre i sogni si realizzano, il fato aveva deciso diversamente.

Era in navigazione a bordo di una nave appartenuta ad una nota compagnia navale italiana, nei pressi di Baltimora papà avvertì un malore e lo ricoverarono in un ospedale con la diagnosi di tifo. Rimpatriato, i medici a Napoli affermarono che si trattava di scompenso cardiaco e non di tifo come era stato curato. Quando sbarcò era irriconoscibile, aveva perso una ventina di chili. Io ero adolescente, ho ancora il ricordo vivo nella mente. Normalmente mio padre era un uomo ben piantato ed anche il suo carattere esuberante ne faceva una persona amabile e cordiale. I suoi amici lo definivano la nota allegra della compagnia, invece, allora era ridotto a una larva, quasi irriconoscibile.  

Mamma impose a me e alle mie sorelle di non piangere davanti a lui per non sottolineare il suo stato di salute. Lo shock fu terribile. Mia sorella maggiore, che era la più consapevole, cambiò totalmente il suo atteggiamento, da giovane bella e spensierata divenne di colpo più matura e responsabile. Mia madre faceva la spola fra l’ospedale napoletano e Ischia fino a quando mio padre non fu dimesso. La sorte della nostra famiglia subì una sterzata inaspettata.

Fino a quel momento eravamo fra i pochi privilegiati ad avere uno stipendio fisso in casa abbastanza considerevole. All’improvviso rimanemmo senza alcun sostegno economico. Per fortuna mia madre, come tante donne dell’epoca, era molto oculata così non cademmo nella disperazione. Col fitto estivo della casa al Capitello riuscimmo a tirare avanti e noi ragazzi a proseguire gli studi. Rosanna trovò un posto come commessa in una delle boutiques più esclusive di piazza Santa Restituta. Con la sua cordialità e discrezione divenne in breve tempo indispensabile ai proprietari. Quando lasciò l’impiego per sposarsi, la boutique dopo poco chiuse i battenti.

Mia sorella Tita ed io trovammo lavoro al bar dello stabilimento balneare “Capitello”. La struttura era in legno sistemata su palafitte. Ero poco più che 14enne mentre mia sorella aveva 16 anni.

Con l’assistenza amorevole dei gestori, riuscivamo a mandare avanti l’attività. Il lavoro non era pesante anzi direi divertente perché eravamo in compagnia della gioventù del posto e dei giovani villeggianti che avevano l’ombrellone nella spiaggia davanti al Fungo. Trascorrevamo quasi tutta la giornata a lavoro. I tormentoni delle estati “Legata a un granello di sabbia” “Sei diventata nera”, “Sapore di mare”, “Come sinfonia” erano i nostri accompagnamenti musicali. Tutti i ragazzi venivano a gettonare le canzoni che andavano di moda e in gruppo imparavano a ballare e studiare i passi del nuovo ballo: l’Hully Gully con l’inconfondibile voce di Eduardo Vianello. A causa dei salti sul pavimento di legno da parte dei ballerini improvvisati, il piatto disco del juke box oscillava e automaticamente il disco si incantava con la disperazione degli astanti. Il povero tecnico proprietario del juke box era sempre presente perché al mattino e al pomeriggio era necessaria la sua opera. Nella comitiva c’erano parecchi ragazzi in sovrappeso che venivano presi di mira dagli altri con scherzi che li facevano rotolare per terra.

Dopo l’esperienza allo stabilimento Capitello durato parecchie stagioni, ottenni il posto come cassiere al night club “Pignatiello”. Questo nuovo lavoro mi fece toccare il cielo con le mani. Negli anni precedenti coi miei amici dovevamo scalare le mura di confine del locale oppure arrampicarci fra gli alberi per ammirare i cantanti che erano i più gettonati all’epoca: da
Françoise Hardy a Mina, da Cocciante ad Aznavour, tutti passavano per il Pignatiello e altri night clubs alla moda dell’isola d’Ischia. Io invece ero lì, alla cassa, questi miti viventi mi passavano davanti, anzi scambiavamo persino delle battute perché alcuni di essi percepivano una percentuale sull’incasso. Tante volte lavoravo in tandem con la persona di fiducia dell’artista. Il lavoro era impegnativo e duro perché si lavorava fino al mattino del giorno seguente, ma, essere in prima fila e poter essere presente e parlare con personaggi famosi che tutto l’inverno avevo visto in TV, mi procurava una esaltazione unica.

La sensazione più bella era che quelle vedette internazionali erano in fondo come te: semplici, spontanee da non far sentire il desiderio di chiedere una foto, un autografo. Più tardi mi son pentito di non averlo fatto durante tutta la mia carriera alberghiera. Era come vivere in un’altra dimensione.

L’unico cruccio era quando rientravo a casa perché mio padre molto spesso, dato il suo stato di salute, respirava affannosamente, nemmeno la bombola d’ossigeno gli dava sollievo. Al rientro, quatto quatto, mi svestivo e andavo a letto per non disturbare il suo sonno leggero. Ma lui con un fil di voce mi diceva: “si venut, com’è gliut?” (sei venuto, come è andata?) Allora gli raccontavo dei personaggi famosi e lentamente si appisolava.

Il piacere più grande fu quando, dopo il primo mese di lavoro, ebbi il primo stipendio: Lire 50.000!!! Da considerare che allo stabilimento balneare con mia sorella guadagnavamo 20.000 al mese, in due!  Quella mattina svegliai tutti i componenti della famiglia, presi i bigliettoni da 10.000 e li sparpagliai sul pavimento.

Dopo tanto patimento un momento di conforto!

La gioia d’aver portato a casa uno stipendio così favoloso mi riempì l’animo di soddisfazione per aver regalato a mio padre un motivo di orgoglio!

Il vino protetto come il sonno di un bambino

Le colline ischitane, anche le più impervie, erano tutte terrazzate ed era molto faticoso raggiungere la cima: nemmeno i muli riuscivano ad arrivare in quei posti. I contadini, con tenacia e maestria, cercavano di rubare più terreno possibile alla montagna terrazzando, a mano a mano che salivano, gli spazi proibitivi che formavano le cosiddette “catene” fortificandole con pietre di tufo, a secco, ottenendo così dei muri di contenimento chiamati “parracine”.

Le colline, le pendici del monte dell’Epomeo erano sotto il controllo dei proprietari; la vite coi suoi grappoli dorati era la regina incontrastata, mai un incendio doloso!

I massi di tufo venivano trasformati in abitazioni e tante volte in fresche cantine, i cellai, dove si custodiva il vino che doveva riposare lontano dai rumori e protetto come il sonno di un bambino.

Già ai primi di settembre i contadini cominciavano ad armeggiare nelle cantine. Data la carenza d’acqua dolce, le botti di tutte le grandezze si portavano in riva al mare per la normale pulizia. I contadini avevano un bel da fare. Lungo le spiagge e i moli c’erano file di botti che venivano pulite e riempite di acqua di mare in modo che il legno si gonfiasse e non ci fossero perdite al momento di conservare il sacro nettare poi venivano lasciate all’aria, colme d’acqua, per parecchio tempo. Un ruolo importante nella pulizia delle botti l’avevano i bambini che, per la loro agilità, dovevano penetrarvi e sfregare con rami di mirto le pareti di esse. A fine operazione, le botti belle e pulite venivano collocate nella cantina nel loro posto abituale aspettando l’arrivo del vino novello.

Le spiagge che qualche settimana prima erano affollate da bagnanti, barche, canotti cedevano il posto a botti di tutte le dimensioni che venivano trasportate da muli o asini attraverso anguste mulattiere che scendevano dalle colline del Fango o Mezzavia fino al mare. Anche i cani, che con i loro padroni abitavano lontano dalle spiagge, erano felici di sguazzare fra l’acqua e la sabbia rincorrendosi fra di loro. I muli e gli asini trovavano refrigerio in un bagno rinfrescante nelle acque davanti alla “Pretagross”, per asciugarsi si rovesciavano col dorso nella sabbia calda riempiendo l’aria di mille disegni con le lunghe zampe.

Per noi bambini la vendemmia era un avvenimento, una festa, si veniva coinvolti tutti: amici, parenti, ognuno aveva una vigna di proprietà o in fitto, non c’era terreno incolto!

Con i miei cugini mi recavo nella proprietà di mio zio Tommaso che possedeva un grosso appezzamento di terreno che confinava con la proprietà di don Carlo Piro. La località abbastanza pianeggiante era chiamata “Ballano”. Essa si arrampicava dolcemente con dei terrazzi fin su in alto, a mezza altezza tra la località  “Pannella” dove si trovava una enorme cantina scavata nel tufo, a ridosso della collina. Davanti all’ingresso c’era un largo spazio ombreggiato da un rigoglioso pergolato d’uva rossa e bionda. A mezzogiorno si allungavano delle “tavole di ponte” appoggiate su dei tini di legno rovesciati in modo da formare una grossa tavolata dove venivano adagiate le vivande: una fumante pasta e fagioli con cotica di maiale, “auglie e crastaurielli” (aguglie e costardelle) fritti, accompagnati da fettine di cipolla fresca.  Insalate di pomodori appena raccolti arricchite con patate lesse, cipolle bianche e rosse, sedano, cetrioli, peperoni, peperoncini dolci verdi (che mangiavo solo in queste occasioni) e abbondanti fette di pane appena sfornato dal forno che si trovava antistante la grotta. Noi bambini bevevamo l’acqua piovana fresca della cisterna allungata con qualche gassosa in caraffe di terracotta mentre per gli adulti era a disposizione “saccapanna” custodita in lavatoi di muratura con pezzi di ghiaccio.

La cantina la si raggiungeva internamente alla proprietà attraverso irti sentieri e gradinate strette di tufo. Per fortuna il terreno aveva anche un accesso dalla strada comunale che da Mezzavia portava al Fango passando per la località Pannella. Per evitare gli scomodi scalini di pietra con il carico dei tini sulle spalle, i trasportatori preferivano inerpicarsi attraverso il sentiero pubblico formato da lunghi scaloni per trasportare l’uva fino alla cantina. Il portone della vigna, in quel periodo, era sempre aperto e molti passanti entravano per scambiare due chiacchiere e fare una bevuta di “saccapanna”  trovando refrigerio lungo la stradina soleggiata che portava al Fango.

Tutt’intorno echeggiavano canti, risate e grida festose dei partecipanti alla vendemmia, dagli anziani della famiglia ai bambini.  Noi piccoli venivamo utilizzati per raccogliere da terra i chicchi d’uva che erano sfuggiti agli adulti. Ogni partecipante portava con sé forbici o coltelli da tasca che in genere servivano per tagliare il pane. La fatica per i più grandi era enorme ma veniva addolcita dall’allegra compagnia e dal vinello.

Più tardi negli anni, coi miei amici ormai adolescenti, anche se non abituati a simili fatiche, per arrotondare il nostro magro bilancio ci offrivamo come trasportatori di tini colmi di grappoli d’uva che dal vigneto trasportavamo a spalle fino alle stradine dove c’erano i muli ad attendere il nostro prezioso carico. Il più delle volte prestavamo la nostra opera nei terreni che si trovavano sulla collina di Monte Vico. I sentieri per raggiungere le catene, lì, erano sconnessi, scavati dalle piogge; era molto facile che qualcuno di noi scivolasse con il peso che portava sulle spalle, con le risate di scherno dei compagni. Anche questi momenti di grande fatica venivano affrontati con allegria e il piacere di stare tutt’insieme e guadagnare qualcosa per  passare le feste di Natale con qualche soldo in tasca. A sera, dopo una lunga giornata, scendevamo attraverso un antico passaggio che da Monte Vico portava giù alla baia di San Montano dove sguazzavamo nelle acque termali calde del “puzzillo”.

Con l’evoluzione del turismo, negli anni, quando i palmenti erano colmi dei preziosi grappoli d’uva, s’invitavano turiste tedesche a “carcare” (pigiatura) l’uva concludendo la fatica in un propizio baccanale con la complicità del vino dell’anno precedente!

Oggigiorno gli appezzamenti di terreno dedicati alla coltura della vite si sono assottigliati notevolmente. Il cemento ha preso il sopravvento, chi ancora cura la vigna non vinifica più, si preferisce vendere il raccolto alle case vinicole dell’isola…i tempi cambiano!