Com’era viva Casamicciola!

Raffaele u’ carrettiere era uno dei pochi ad aver un mezzo di trasporto per uso comune. Esistevano le carrozze che portavano le persone a spasso. Ricordo che quando mio padre tornava da uno dei suoi lunghi viaggi, la domenica sera d’estate, portava tutta la famiglia a prendere un gelato da Calise con la carrozzella di Fabrizio a Casamicciola e poi facevamo ritorno a piedi. Com’era viva Casamicciola! Per noi bambini di Lacco andare a Casamicciola era come partecipare a un avvenimento. Appena arrivavi c’era la statua del Re Vittorio Emanuele, imponente che dominava la piazza, ad accoglierti. Quel monumento così austero metteva soggezione. La piazza era gremita di carrozzelle con cavalli, c’erano numerosi taxi (a Lacco ce n’erano appena due) molti dei quali erano decapottabili con tende colorate a strisce bianche e blu che aspettavano i turisti dalle imbarcazioni. Anche le carrozzelle avevano un tendone bianco, a cupola, per proteggere i passeggeri dal sole durante le ore calde del giorno. A me piaceva andare con la carrozzella di Fabrizio perché mi faceva sedere a “cassetta” di fianco a lui che teneva le redini del cavallo. Stare seduto a quel posto mi dava la sensazione di guidare il cavallo. Casamicciola era tutta in fermento: la gente era vestita con abiti colorati ed eleganti. Ricordo che gli autisti e i cocchieri avevano tutti il viso bruciato dal sole per le lunghe ore alla guida. C’erano tavolini colorati disseminati in mezzo alla piazza con turisti seduti in comode sedie. Addirittura in un area così circoscritta c’erano cinque bar, uno vicino all’altro. Attaccato al “Calise” c’era un altro bar che doveva combattere non poco la sua concorrenza perché i prodotti di pasticceria del primo erano conosciuti in tutta la Campania e oltre. Oltre ai bagni pubblici, gestiti da “Giuannella” sempre con la scopa in mano intenta a pulire, c’era una piazzola dove tantissimi villeggianti praticavano il pattinaggio a rotelle. Lo spazio era coperto da una superficie levigata: sembrava che i pattinatori di tutte le età scivolassero velocemente sul suolo senza cadere facendo a volte delle acrobazie. Poco distante c’era uno stabilimento balneare dove fu eletta una delle più belle “Miss Italia” degli anni 50. Precisamente nell’estate del 1959: Marisa Iossa alta 1,77, bellissima ragazza napoletana, conquistò il titolo a Casamicciola. Tutta la stampa dell’epoca parlava dello straordinario evento e il cinegiornale diffondeva la notizia proiettando l’immagine dell’isola d’Ischia in tutte le sale cinematografiche d’Italia. Buon sangue non mente, anche la figlia Roberta Capua conquistò l’ambito titolo nel 1986.In compagnia dei miei genitori la serata si concludeva sempre con una pizza spettacolare al ristorante Ciritiello che era ubicato in un lungo giardino coperto da un pergolato di uva e gelsomino poco lontano dalla piazza. La pizza era enorme, mangiarla a tavolino, anziché piegata con l’olio bollente che fuoriusciva, era un’occasione che capitava solo quelle poche volte che mio padre era in famiglia.Più tardi, quando mi trasferii con la famiglia al Capitello, passava Raffaele “u ciucciar”, con la sua carrozzella trainata da un asino, che andava al porto di Casamicciola dove arrivava “u motor” (così venivano chiamate le imbarcazioni) che oltre i passeggeri trasportava anche merce varia. Raffaele ci portava con sé quando doveva caricare i pacchi di sale per “Mattia u tabaccar”; noi pur di fare una passeggiata sulla carretta eravamo disposti anche a caricare la merce sulla carrozzella. Il “ciuccio” di Raffaele, al ritorno, doveva trasportare noi, i pacchi e il padrone perciò camminava piuttosto lento e il padrone, per spronarlo ad andar più veloce, con la bacchetta rivolta verso il cielo gridava: harrr….. harrr….. ma “u ciuccio” più di tanto non riusciva ad essere veloce. Un giorno “on Giuann u salese” che aveva un negozio di casalinghi a piazza Santa Restituta gli disse: “Rafaè, se sei capace di andare fino al “motore” senza gridare harrr….. al ciuccio, ti pago il doppio la commissione”. Il cocchiere accettò la sfida, fino al Capitello si guardò bene dal gridare harr… all’asino ma, arrivato all’altezza di Villa Svizzera, mal sopportando il passo lento del suo animale gridò: “harrr…..harrr e vaffancul…..” e perse la scommessa! www.peppinodesiano.it

Del maiale non si butta niente

Nel periodo in cui abitavo a Mezzavia, ricordo che ogni famiglia aveva un secchio dove veniva raccolto “il brodo” che consisteva nella prima lavatura dei piatti e delle pentole sporche oppure l’acqua della pasta o del riso. Non c’era saponina, mia madre e le mie sorelle pulivano i piatti con una buccia di limone spremuto oppure con un pezzo di pane, prima di passarli nell’acqua. Poi arrivava Amedeo per recuperare il liquido con cui preparava “u pastone” per i maiali che allevava.

All’inizio dell’inverno, prima di andare a scuola, ci recavamo in gruppo in una casa contadina per assistere al rito tanto atteso da noi piccoli: l’uccisione dell’amato maiale che rappresentava ricchezza e sopravvivenza per un anno intero per le famiglie. Vigeva il detto “del maiale non si butta niente”, difatti Lenuccia la moglie di Amedeo e gli altri componenti della famiglia erano molto abili a preparare ventresche, salami, salsicce, lardo, capocollo, sugna e altre specialità che poi vendevano in occasione delle feste. Alle famiglie come la nostra, che aveva collaborato a conservare il brodo, veniva riconosciuto un litro di sangue per il sanguinaccio, della sugna, cotiche e qualche salsiccia e “costatelle” durante il periodo natalizio. Mia sorella Rosanna era la specialista del sanguinaccio e noi più piccoli, per renderlo più personalizzato, raccoglievamo i pinoli dalle pigne cadute dagli alberi di pini per aggiungerle al prezioso preparato. Anche la pasticceria Calise di Casamicciola vendeva porzioni di sanguinaccio in bicchierini di carta. A differenza di quello confezionato in casa, il sapore era più di cioccolato aromatizzato con tante spezie.

Amedeo era molto abile ad ammazzare col coltello il maiale e la sua opera era molto richiesta in paese. Con lui si era sicuri che l’animale cresciuto con affetto, apprezzato per la sua carne, non soffrisse al momento del distacco.  Capitava, a volte, che il maiale sfuggisse ai proprietari, come se avesse capito cosa l’aspettava e scappava via. Una mattina un maiale che doveva andare al macello fuoriuscì dal recinto e andò a finire nella spiaggia del “Fungo”. Puntò direttamente verso il mare, per fortuna c’erano le reti messe ad asciugare lunga la spiaggia dove l’animale si impigliò e dovettero lavorare non poco per liberarlo.  La stessa cosa capitò con un bue che era condotto al macello: un colpo male assestato dal macellaio, anzichè puntare sul centro della fronte, colpì il bue su di un lato della testa. L’animale si divincolò dai ganci e schizzò in mezzo alla strada scappando verso le “Stufe di San Lorenzo”. I passanti atterriti scappavano in tutte le direzioni, per fortuna la pavimentazione stradale composta da enormi basoli fecero scivolare rovinosamente l’animale che venne facilmente catturato dal macellaio.

Un altro ricordo nitido della mia infanzia era la macelleria del paese. Era un locale molto alto e ampio con un soffitto a volta.  Al centro del negozio troneggiava il bancone dove operava “don Cesare”. Egli era pacioso e rubicondo, sempre sorridente. Era una festa vedere tanta ricchezza di carne in bella mostra fra rami di rosmarino e lauro. La domenica mia madre mi mandava a prendere la carne, le solite fettine di “colarda” con cui faceva gli involtini, ripieni di aglio, prezzemolo e formaggio vecchio grattugiato che arricchivano la salsa di pomodoro. A fine mese quando arrivava lo stipendio di mio padre saldava il debito.  Nel periodo natalizio l’esposizione era ancora più ricca perché il maiale era dominante. I ganci erano tutti impegnati: dalla trippa alle pezze di lardo, dalla sugna contenuta in una vescica a mo’ di pallone alla ventresca ricca di spezie. Dietro al banco erano sistemati i pezzi di prosciutto, “tracchiulelle”,  costolette, cotiche arrotolate, mentre  di fianco al banco c’era un trionfo di salsicce che due ganci non riuscivano a reggere tutte. Don Cesare e suo padre lavoravano tutta la notte per prepararle. Le salsicce di don Cesare erano le migliori di tutto il paese: l’impasto veniva bagnato col vino bianco della sua cantina, ne preparava delle altre con spezie varie che  richiamavano acquirenti da tutta l’isola. Venivano richieste in gran numero anche per i matrimoni o cene fra amici, oltre ad essere consumate nelle famiglie.

Sicuramente chi apprezzava di più le salsicce di don Cesare era Sarina che quatto quatto, come una gatta, si avvicinava al lato del banco dove erano sistemate.  Con molta naturalezza iniziava a svuotarle crude, ancora fresche, deglutendo il contenuto con la gioia e il sorriso di don Cesare che era estasiato a guardarla mentre lei, con uno sguardo malizioso, continuava ad appagare il suo appetito!

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Ischitani brava gente

Molto spesso ci lamentiamo che noi Ischitani siamo un popolo litigioso e rancoroso. Sarà vero perché in varie circostanze ci è stato rinfacciato da più parti. Voglio raccontare un paio di episodi che ho vissuto direttamente o indirettamente. Venivo da un massacrante tour di tre giorni a Milano, trascorsi all’interno del padiglione della fiera del turismo, di febbraio. Ero molto caricato perché in passato avevo partecipato a questa kermesse in rappresentanza di compagnie alberghiere con cui collaboravo. Questa volta, fresco dall’abilitazione di “Direttore d’Agenzia Viaggi” e dalla realizzazione di una struttura turistica di proprietà, ero motivato doppiamente a stringere contatti nuovi e lanciar il mio prodotto nel circuito turistico. L’entusiasmo era talmente forte che seguivo ogni avvenimento senza perdere nessuno evento, compreso i seminari che si tenevano all’interno del padiglione della fiera. Alla fine dei tre giorni, soddisfatto del lavoro svolto, decisi di partire la sera stessa. Per fortuna trovai un posto disponibile in una cuccetta così salii sul treno alla volta di Napoli. Capitai in uno scompartimento con altri passeggeri che scendevano alcuni a Roma e altri che proseguivano oltre Napoli. La cuccetta era surriscaldata, il russare di qualche compagno di viaggio rese la nottata lunghissima. Superata Bologna, riuscii a chiudere gli occhi. La gola secca e la necessità di andare in bagno mi costrinsero a cercare una bottiglia d’acqua minerale. Tornato in cabina, trovai gli occupanti dello scomparto svegli e in stato di allerta perché nella cabina adiacente alla nostra era scomparso il beautycase di una viaggiatrice che aveva custodito in esso alcuni preziosi e documenti. Dopo varie ricerche sul treno, il beauty fu ritrovato intatto in uno dei raccoglitori di rifiuti lungo il corridoio. Il viaggio fu abbastanza movimentato e non riuscii a riposare per le restanti ore. Superata la stazione di Roma Termini, lo stress accumulato nei tre giorni passati in fiera a Milano incominciò a farsi sentire. Nel giro di poco tempo gli occhi cominciarono ad offuscarsi e un dolore martellante invase la mia testa. Così appena passò il carrello delle bibite presi un caffè caldo con la speranza che m’avrebbe fatto sentire meglio. Anziché risvegliarmi, cominciai ad avvertire un malessere per tutto il corpo con brividi di freddo. La testa mi pulsava ancora di più, avvertivo nausea, sembrava che dovessi rigettare da un momento all’altro. Qualcuno che era salito sul treno a Roma notò lo stato pietoso in cui mi trovavo, mi offrì una camomilla calda che mi face stare meglio fino a Napoli. Arrivato in stazione con la testa che mi girava, riuscii a raccogliere le mie cose e raggiungere lo stazionamento dei taxi per il molo Beverello. Davanti alla fermata dei taxi trovai quel passeggero del treno che m’aveva offerto la bevanda calda, anche lui doveva andare al molo e così facemmo il viaggio assieme. Arrivati allo scalo marittimo pagai il taxi e questo signore, viste le mie condizioni fisiche, mi tolse il borsone dalle spalle per aiutarmi nel trasporto, volle per forza pagare i biglietti dell’aliscafo. Nel frattempo, avvisai i miei con una telefonata dell’ora dell’arrivo a Ischia per venire a prendermi al porto. Il nuovo amico restò seduto nella stessa fila a distanza di un posto. Sul battello la nausea cominciò ad assalirmi di nuovo e, anche se c’era mare calmo, lo stomaco mi dava fastidio fino al vomito, cosa strana mai capitata prima. Ebbi un’assistenza costante e avvertivo fortemente la presenza di questo buon samaritano. Si presentò, capii che era di Barano ma non seguivo quello che diceva perché ero in uno stato di sofferenza e sonnolenza, sembrava d’essere in apnea. Mi accompagnò fino all’uscita dell’aliscafo, mi portò il borsone fino alla scaletta, allo sbarco c’erano i miei ad attendermi. Quel signore si dileguò, non ebbi nemmeno la possibilità di presentarlo ai miei, ringraziarlo e capire chi fosse. Lo so che ognuno avrebbe fatto la stessa cosa ma intanto fu un Ischitano ad offrirmi tutta quella assistenza. Una persona che io non avevo mai visto prima per cui mi dispiace che il mio stato confusionale non mi avesse consentito un adeguato ringraziamento. E’ anche capitato che tanti turisti durante il soggiorno abbiano smarrito il porta moneta che è stato puntualmente restituito loro intatto. Un episodio simile, molto conosciuto nel paese di Lacco Ameno, capitò ad una turista tedesca che soggiornava in un noto albergo del paese. La cliente, arrivata nel suo hotel abituale, sentendosi sicura, lasciò i suoi preziosi in camera non depositandoli nella cassetta di sicurezza che l’albergo metteva a disposizione gratuita degli ospiti. Dopo qualche giorno scomparvero gli oggetti d’oro dalla sua camera. Il personale dell’albergo era lo stesso che accudiva la turista da tanti anni. I sospettati erano tanti, sia la direzione dell’albergo che la cliente sporsero denuncia. La signora continuò il suo soggiorno e tornò in Germania senza i suoi gioielli. Molti di essi erano ricordi tramandati da genitori e da antenati. A differenza degli altri commiati di fine vacanza, questa volta la partenza fu più triste. Durante l’anno scolastico, uno studente del “Meccanico Navale”, mentre giocava a palla con altri amici, non controllò il tiro e la palla andò a finire in un cespuglio nello spazio antistante l’Istituto. Un grosso pacco di colore oro sgargiante un po’ sbiadito, nascosto fra le piante, attirò la sua attenzione, chiamò gli altri compagni ed insieme aprirono l’involucro. Con loro grande sorpresa e meraviglia sembrava d’aver trovato lo scrigno dei pirati come nei racconti d’avventura. In effetti oltre a una grande quantità di collanine, bracciali, anelli c’erano anche monete e piccoli lingotti d’oro. Denunciarono il tutto ai carabinieri che contattarono la direzione dell’albergo e la turista tedesca che si precipitò sull’isola per ritirare i suoi preziosi che ormai non sperava più di recuperare. La signora lasciò un lauto riconoscimento al ragazzo che aveva trovato, nascosto in un folto cespuglio, il suo “tesoro”! www.peppinodesiano.it

Totonno “u tabaccar”

La tabaccheria di “Totonno” era nel centro del paese, attuale corso A. Rizzoli. Di bar ce n’erano pochi e posti dove passare le serate d’inverno scarseggiavano, la TV non esisteva ancora. In uno dei locali della tabaccheria c’erano un paio di biliardini meglio conosciuti come “calcio balilla”. Qui si rotrovava tutta la gioventù del posto, specialmente ragazzi. La partita di calcio domenicale veniva commentata minuto per minuto per tutta la settimana, per non parlare degli incontri/scontri delle squadre dell’isola.

Nel locale prendevano vita tutte le manifestazioni del paese. Si faceva politica, si organizzavano comitati per la festa patronale, la sera i gruppi di ragazzi erano talmente numerosi che anche la strada antistante il negozio era gremita.

Fra questi c’erano studenti che frequentavano il nautico perché gli indirizzi scolastici erano limitati. C’era l’Istituto nautico a Procida e il liceo classico a Ischia. Per altri indirizzi ci si doveva spostare in terraferma. Le disponibilità economiche scarseggiavano e parecchi andavano in seminario per studiare. Totonno e i suoi fratelli erano fra i pochi ragazzi del paese ad aver studiato.  Aveva conseguito la maturità magistrale ed era molto bravo a comporre poesie e a scrivere, fino a diventare “don Antonio” da grande.

Uomo di cultura, anziché insegnare è stato sempre dietro al banco dell’attività di famiglia. Per la scomparsa prematura di un giovane o di una personalità del posto, veniva chiamato Totonno anche per “tenere un discorso” o un panegirico in ricorrenze speciali. Molte persone si recavano da lui per farsi scrivere lettere importanti o semplici lettere di corrispondenza fra familiari anziani e figli che navigavano o vivevano all’estero.

Il negozio, oltre al sale e tabacchi, vendeva l’occorrente per la scuola: proprio da lui, noi ragazzi di Lacco acquistavamo le prime penne “biro” il cui inchiostro puntualmente col caldo fuoriusciva dall’astuccio e imbrattava quaderni, libri e anche i pochi cenci che indossavamo.

Anche Vincenzo, mio cugino, meglio conosciuto come “wagnel” aquistava i pennini da Totonno. Già piccolissimo sprizzava simpatia da tutti i pori anche perchè era molto minuto. Un pomeriggio, uscito dal doposcuola, entrò nel negozio e fu subito circondato dai ragazzi più grandi. In un battibaleno lo alzarono di peso sul bancone e gli intimarono di recitare la poesia “Pianto antico” di Giosuè Carducci che lui conosceva bene. Come contropartita, Vincenzo chiese uno dei cartoni che stavano dietro al banco. Appena recitata la poesia saltò giù, afferrò un pacco vuoto che aveva adocchiato e scappò via. Con sua grande sorpresa trovò nel contenitore dei soldi di carta strappati e delle monete. Felice della buona sorte, corse a casa e senza farsi vedere dai familiari andò a nascondere lo scatolo fra “i pennicill”. Non stava nei suoi panni, aveva i soldi per comperare i colori più belli e caramelle a volontà. Un giorno, tornato dalla scuola, andò dietro la casa per recuperare qualche soldo dal cartone che purtroppo era sparito. Il povero Vincenzo, non trovando il pacco, rimosse tutti “e pennecill” ma senza alcun risultato utile. Qualcuno, accortosi della disponibilità di soldi che aveva, gli aveva fregato la scatola.

Totonno, dalla sua postazione, ammirava tutte le ragazze che passavano per strada e dovevano necessariamente transitare davanti al negozio, specialmente le ragazze di Mezzavia. Lui era galante con tutte, ad ognuna dedicava una poesia. Le ragazze erano attratte perché, oltre ai versi di Totonno, erano stimolate dagli sguardi d’ammirazione dei giovanotti del posto sempre numerosi nel locale.

Oltre a tornei di calcio, in “tabaccheria” si organizzava anche teatro e Totonno era bravissimo anche come attore.

Nel palazzo scolastico Principe di Piemonte ogni anno il 21 novembre si svolgeva la festa dell’albero. Si piantava un albero in un’aiuola che si trovava alle spalle dell’edificio. Questo momento era molto sentito dai ragazzi. Di fianco all’aiuola c’era un padiglione che fungeva da palestra coperta: in questa sala Totonno col suo gruppo di amici facevano teatro. Una scena rimasta impressa nella mente di tutti i lacchesi era quella in cui doveva improvvisare una caduta gridando con una mano alla nuca: l’occipite!…l’occipite…! La scena fu talmente realistica che la parola “occipite” entrò nell’uso comune. Fino ad allora nessun in paese conosceva quella parola, né il significato di essa.

Uno dei personaggi indimenticabili per interpretare le macchiette era Peppino “e sciusciell” che aveva un accento nasale. Quando appariva lui sulla scena il pubblico andava in delirio. Ancora oggi viene ricordato per l’esilarante macchietta “a cing pezz” e “chi è che bussa al mio convento”. L’affluenza di pubblico era talmente numerosa che i posti a sedere non bastavano più, molti restavano all’impiedi.

La preoccupazione maggiore da parte di Fraticelli, proprietario del cinema Italia a Casamicciola, era che ogni domenica vedeva diminuire il flusso di pubblico. Oltre agli spettatori lacchesi cominciavano a venir meno anche quelli di Casamicciola. Allora una banda di “disturbatori” provenienti da Casamicciola si presentava alla palestra della scuola di domenica.

Molto spesso, durante lo svolgimento dello spettacolo teatrale, questo gruppo cominciava a dar fastidio e a interrompere lo spettacolo con critiche ed epiteti volgari verso gli attori. Puntualmente questi scendevano dal palcoscenico per darsele di santa ragione con gli intrusi. Uno spettacolo previsto nello spettacolo. Così si concludeva la commedia!