La mia esperienza direttiva al Reginella

Al mio arrivo all’Intercontinental di Hannover fui sorpreso per i numerosi cartelli colorati che invitavano il personale ad essere cordiali coi clienti:

Smile at the hotel guests

Be nice to hotel guests

Lächle die Hotelgäste an

Seien Sie nett zu Hotelgästen ed altri.

Queste frasi erano inconcepibili per me data la nostra cultura. Nemmeno all’Intercontinental di Ginevra, che apparteneva alla stessa compagnia, avevo visto dei cartelli simili .In Germania, anche se si stava bene, l’atmosfera lavorativa era più distaccata, fare gruppo coi colleghi era difficile, l’atmosfera la si creava solamente intorno a un bicchiere di birra. Queste esortazioni le trovavo un po’ lontane dalla mia mentalità. Forse perché noi Italiani siamo più aperti, più disponibili all’amicizia e questi cartelloni li sentivo come una forzatura. Non si può chiedere a qualcuno di sorridere quando poi quella persona in cuor suo non si sente di farlo, è una questione di mentalità, modo di essere. Fatto sta che ogni anno quando si aprivano gli scatoloni, dove erano raccolte le preferenze dei clienti, il reparto che riceveva più riscontri positivi era quello che aveva più personale italiano. La catena dell’albergo era americana, apparteneva alla compagnia aerea PANAM, e tutto il sistema organizzativo era all’americana. Siamo agli inizi anni ’70. Il lavoro di cassa era molto complicato e richiedeva parecchio impegno. Molto spesso le partenze degli ospiti avvenivano alla stessa ora e c’erano file interminabili al banco. Ad operare eravamo solo due cassieri contro 200 partenze che avvenivano nello stesso spazio di tempo. Alcuni ospiti pagavano con carta di credito, mentre tantissimi in contanti. Capitava che lo stesso conto venisse saldato con valute differenti e il calcolo richiedeva più tempo e gli ospiti in fila si spazientivano. Tante volte al momento di maggiore affluenza alle casse, la posta pneumatica con cui i reparti (room service ai piani, la brasserie ecc.) spedivano i buoni d’addebito chiusi in bussolotti di metallo andava in tilt. Le cartucce si scontravano fra di loro lungo il percorso e non arrivavano in tempo alla cassa. Allora si veniva chiamati col telefono interno dove puntualmente si accavallavano le voci appartenute ai camerieri, non si capiva niente. In più si dovevano calcolare gli scatti telefonici dal telefono usato dalla stanza d’albergo. Un lavoro da pazzi! Come ultima operazione, prima di presentare il conto al cliente si doveva scorporare anche l’IVA dal conto, un vero stress! C’erano riunioni (meeting) mensili fra reparti per migliorare il rapporto di lavoro. In genere succedevano attriti fra colleghi che lavoravano gomito a gomito oppure fra reparti che operavano a stretto contatto. Questi incontri (meeting) avvenivano alla presenza dei capireparto e servivano a smussare i malintesi fra colleghi e reparti. Ho sempre pensato che il lavoro d’albergo, specialmente per quel che riguarda il rapporto col pubblico, agli Italiani riesce meglio. Questo avveniva in Germania. A Ischia invece il lavoro d’albergo era molto appagante. L’atmosfera fra i reparti era armoniosa e di grande professionalità, non mancavano discussioni seguite da incontri chiarificatori. C’era grande competenza e intesa fra la Direzione Generale e i quadri dirigenziali. Il personale era altamente specializzato, il grosso dei direttori e responsabili dei servizi in tutta l’isola d’Ischia provenivano dal continente, sia negli alberghi che negli stabilimenti termali. Negli anni trascorsi come direttore a Villa Svizzera, al Fungo e al Reginella, ho avuto la fortuna di avere come collaboratori persone molto più anziane di me con una esperienza lunghissima nel settore. Citarli tutti sarebbe un grosso lavoro, ma sicuramente quello che porto sempre nei miei ricordi è Nunzio Mattera. Era chef di cucina, molto particolare, professionale, calmo e fantasioso. La sua cucina era internazionale ma dava spazio maggiormente alla cucina tipica partenopea. La cucina del Reginella, grazie a lui, ha tenuto vincolato per la “gola” clienti di tutte le nazionalità per anni. Più volte la rivista femminile “Annabella” dedicava parecchie pagine ai piatti dello chef Nunzio. Come in tutti gli alberghi anche al Reginella c’erano conflitti fra reparti. I contrasti si dissolvevano quando assieme ci trovavamo, dopo aver finito la giornata di lavoro, in una cantina a Buonopane, che apparteneva al simpatico ed efficiente Pasquale Iacono, facente parte della brigata di sala. Questi incontri (meeting), in cantina, al chiaro di luna erano realizzabili grazie al personale che sacrificava con entusiasmo le ore di libertà per la preparazione dei giochi. Organizzavamo dei tornei indimenticabili di bocce, minigolf e bingo con l’entusiasmante partecipazione degli ospiti dell’albergo. Era bello il mescolarsi giocoso dei dipendenti dell’albergo con i clienti, che erano personaggi facoltosi (politici navigati, artisti affermati, industriali importanti). Anche i non più giovanissimi si impegnavano come dei bambini e si appassionavano per arrivare alla vittoria finale. I partecipanti dovevano versare una modesta cifra d’iscrizione. La formula era collaudata e tutti i clienti aspettavano questi momenti di svago durante il loro soggiorno. Il portiere Luigi Piro s’interessava dell’incasso e dell’organizzazione dei giochi. Col ricavato il maître, Luigi Rosani, si recava presso il suo macellaio di fiducia facendosi preparare delle “fiorentine” che venivano arrostite sulla brace, preparata sapientemente dal proprietario della cantina. Partecipavano alla cena soltanto il personale del nostro albergo. Durante queste riunioni fra reparti (con la discreta regia del sottoscritto) in cantina, col buon vino, pane di casa, insalata cafona, in compagnia del puzzo e del grugnito sommesso del maiale, l’allegra compagnia scaricava tutte le tensioni accumulate nei giorni precedenti sul lavoro. Erano soddisfatti e pronti per affrontare in armonia il lavoro dei giorni a seguire programmando in tempo il prossimo “meeting”!

Il rione del Capitello

Col trasferimento alla nuova casa dei miei antenati, al palazzo De Siano, al Capitello, incontrai tantissimi compagni di classe con cui mi recavo ogni mattina alla scuola elementare. Questo rione era il più piccolo del paese di Lacco, ciononostante era densamente popolato. C’erano solo tre vicoli lunghi e stretti che lo percorrevano longitudinalmente. Come in tutte le contrade si viveva in comunione. Lacco Ameno è stato sempre un paese pacifico: la maggior parte dei capofamiglia erano naviganti, pescatori, contadini ed emigranti la cui famiglia rimaneva protetta nel guscio della zona. Il Capitello era ubicato proprio nelle vicinanze della fontana del “pisciariello”. Poco distante c’era il pozzo della maestra Colonna, si diceva che questa acqua portasse giovamento ai sofferenti di calcoli al fegato. Arrivavano persone col bus da tutta l’isola (fra cui mi ricordo un prete che veniva da Forio) a prendere l’acqua miracolosa per i familiari. C’era un via vai continuo di gente: chi in vespa, altri coi muli a prendere l’acqua e tutti venivano ben accolti dai parenti della maestra.Uno dei primi personaggi che attirò la mia attenzione al Capitello fu Nannina “a zoppa”. Viveva in una baracca in fondo al vicolo da sola, un bellissimo viso molto espressivo e sorridente, capelli chiari quasi rossi e occhi verdi. Era molto curata, anche alle labbra aveva un filo di rossetto che all’epoca non era comune e una collana di perle al collo. Per gambe aveva dei moncherini ed era seduta su uno sgabello di legno che muoveva con possenti braccia. In genere quando si è piccoli si prova disagio al cospetto di persone come lei, invece Nannina era molto positiva, cordiale e affabile. Grazie al bel carattere, la sua baracca era frequentata da ragazze e ragazzi, lei era così accattivante da promuovere occasioni per far incontrare i giovani e molto spesso queste sane amicizie sfociavano in matrimoni.Nei giorni di festa e in occasione di ricorrenze religiose più ragazze l’aiutavano a vestirsi e poi i ragazzi, a braccio, la portavano in chiesa per assistere alla cerimonia con tutto il suo sgabello fatto a posta per lei dal falegname del paese. Era un po’ la sorella, la zia, la mamma di tutto il rione, ognuno veniva accolto dal suo sorriso. Questa sua dote era contraccambiata dall’affetto e dal calore umano di tutto il paese.Vicino alla baracca di Nannina viveva un mio coetaneo, Gennaro che aveva il mio stesso cognome: i miei dicevano che ci appartenevamo ma non ho mai capito il grado di parentela. Fra noi c’era un’intesa e ci proteggevamo a vicenda dagli altri ragazzi. La sua famiglia era numerosa, ai ragazzi capitò la stessa sfortuna occorsa a mio padre, lui e i suoi fratelli rimasero orfani fin da piccoli. La mamma morì dopo aver dato alla luce il piccolo Ciro che fu messo in collegio mentre gli altri fratelli furono accuditi dalla nonna “T’rsona”, chiamata così perché era una donnona, mi ricordo che aveva delle mani molto grandi, portava gli occhiali un po’ affumicati che non l’aiutavano granchè perché aveva la cataratta. Oggi la cataratta è diventato un intervento che viene fatto in day hospital invece all’epoca la tenevi fino all’ultimo respiro. La nonna ormai in età non riusciva ad accudire l’intera famiglia per questo motivo subentrò la zia Concetta che era appena sposata e non aveva figli. Con sacrificio e amore diede assistenza a tutti i ragazzi. Ricordo Franco, più piccolo di Gennaro che era molto vivace e irrequieto, per la sua vivacità gli diedero il soprannome di “cardillo”. Non risparmiava nessuno coi suoi scherzi, con l’adolescenza cambiò carattere diventando più calmo. La zia col marito, da tutti chiamato Don Pietro, aprirono uno dei primi ristoranti a Lacco “O padrone do mare” proprio per la posizione in riva al mare. Don Pietro penso che abbia lavorato, da ragazzo, fuori dall’isola. Era alto e dritto, con i capelli portati “alla mascagna”, pieni di brillantina, sempre elegante aveva un portamento da maggiordomo. Accoglieva alla stessa maniera, molto professionale, sia i forestieri che la gente del posto. Tutta la famiglia di Gennaro fu impiegata nella conduzione del locale che divenne col tempo uno dei migliori ristoranti dell’isola. Grazie alla buona cucina e alla vicinanza al Regina Isabella era frequentato anche da clienti di quest’albergo. Una sera il locale fu fittato interamente alla coppia più celebre del momento: Liz Taylor e Richard Burton che si trovavano sull’isola per girare il film Cleopatra. Si sapeva che ai due, oltre che mangiare bene, piaceva gustare il buon vino ischitano. Per sfuggire agli impietosi paparazzi che erano appostati aspettando l’uscita della coppia, i due furono fatti uscire da un ingresso secondario che era vicinissimo al giardino dell’albergo, beffando i fotografi.

La nascita dei Giardini Poseidon

Con l’apertura dell’Albergo Terme Regina Isabella a Lacco Ameno incominciò ad arrivare di nuovo il flusso di turisti da tutto il mondo, interrotto bruscamente dal terremoto del 1883 e dalle due guerre mondiali, sull’isola.

Negli anni 50/60 per noi ragazzi, come già raccontato in precedenza, era tutto nuovo ed eccitante. Da considerare che non tutte le famiglie di Lacco e dell’isola possedevano l’elettricità nelle case e di conseguenza, in molte di esse, la sera si accendeva il lume ad olio. Le candele di cera erano care e si consumavano velocemente perciò si adoperava il lume a petrolio.

Il televisore era presente in poche abitazioni.

Fra gli operatori turistici, che all’epoca seppero capire il momento del nuovo vento, ci fu Pierino Massaro che dotò la baia di San Montano di uno stabilimento balneare con ombrelloni, sdraio, docce e spogliatoi. Inoltre creò un rinomato ristorante che attirava facoltosi vacanzieri. Essi coi loro yacht erano ancorati al largo della baia. Noi ragazzi avevamo ingresso libero e potevamo circolare liberamente per tutta la spiaggia. C’era Savino, il bagnino, di qualche anno più grande di noi, che insieme al fratello Gennaro si prendeva cura della spiaggia. Ci prestavano i pattini coi quali potevamo scorrazzare per tutta la baia e arrivare a volte fino a San Francesco.

A quell’epoca un altro polo di attrazione era il bar Florenzo, di Enrico e la moglie Luisa, che segnò una svolta nel paese. Il bar, in seguito al matrimonio dei due, venne rinnovato e pitturato con colori pastello, dotato di un avveniristica illuminazione, un banco e la macchina del caffè nuovi di zecca. La signora Luisa personalizzò il locale alla sua maniera, dipingendo personalmente i teli che coprivano i tavoli con colori e disegni fantastici che riprendevano l’ambiente circostante: mare, vele, barche, stelle, lune, cieli blu e rosati, qualcosa che non s’era mai visto prima! Gli ospiti del Regina Isabella, la sera dopo cena, arrivavano fino al Bar Florenzo per il caffè o un drink.

Lo spiazzo laterale al bar fu circoscritto con piante e fiori e dotato di comode sedie, tavolini e un televisore. Noi ragazzi del posto, dall’esterno, godevamo dei programmi televisivi che trasmettevano spettacoli con Teddy Reno, Abbe Lane, Marisa Del Frate e altri artisti dell’epoca. Il bar Florenzo divenne il punto di riferimento per la gioventù di Lacco dove la sera ci si riuniva per gettonare al juke-box le canzoni più belle dell’epoca, cantate da Adamo, Celentano, Paul Anka, Gene Pitney e tanti altri.

Il talento di lei, unito all’entusiasmo del marito Enrico, crearono inoltre il primo albergo ideato da lacchesi: Hotel il Principe di fianco alla Villa Campo, una delle poche ville di Lacco Ameno appartenuta alla famiglia dei Calise Piro.

Oltre al pallino per gli affari, la signora Luisa si dilettava di pittura affrescando pareti e arredando personalmente i locali con quadri di sua fattura. Dimostrava di essere un’eccellente padrona di casa oltre che un’artista di pregio.

Più tardi, quando ero direttore al Reginella, ebbi fra gli ospiti la sorella Alessandra Ansaldi. Una persona eccezionale, reduce da una vincita di 118.600.000 milioni di lire, a seguito alla partecipazione alla famosissima trasmissione televisiva Superflash condotta da Mike Buongiorno su Canale 5, una somma enorme!

L’isola d’Ischia, oltre ad essere conosciuta per le salutari acque termali, diventa un centro culturale intercontinentale.

Il Bar Internazionale, con la affabulatrice Maria Senese, diventa punto d’incontro di tutti gli artisti presenti sull’isola d’Ischia come Truman Capote, Wystan Auden, Alberto Moravia, Elsa Morante, Dacia Maraini, Pierpaolo Pasolini. Li incontravi a tutte le ore seduti al bar di Maria: pittori come Aldo Pagliacci, Eduard Bargheer che regalò un mosaico alla comunità di Forio ancora esposto fuori della basilica di Loreto lungo il corso principale.

Era l’epoca dei primi turisti tedeschi che amavano Forio e i suoi luoghi selvaggi, primitivi, intatti, inebriati dalla natura. Oltre a bagnarsi nelle chiare e incontaminate acque del mare di Citara e stendersi al sole sulla granulosa spiaggia, incominciarono a esplorare i luoghi circostanti. E chi se non i Tedeschi, oltre a trovare accoglienza fra i contadini della zona, scoprirono le antiche e salutari fonti calde d’acque termali?

I contadini, per bagnare i terreni circostanti lungo la spiaggia di Citara, usavano robuste norie che raccoglievano l’acqua calda delle fonti termali con una catena di secchi grazie ad asini che giravano intorno al pozzo e poi sversavano nelle “pischere” per raffreddarle. La gioia più grande di questi turisti era proprio quella di tuffarsi in queste vasche, ricche di fango naturale, e uscirne coperti di melma, apprezzandone i benefici.

Grazie agli antichi Romani, i Tedeschi sono diventati degli estimatori dei bagni termali. Difatti in Germania ci sono numerose città che addirittura hanno il prefisso “Bad” avanti al nome delle città.

La grande ispirazione l’ebbe proprio un dottore tedesco Gernot Walde (siamo agli inizi anni 60) abbinando i bagni di mare a quelli termali creando così delle piscine d’acqua termale in riva al mare, nel rispetto dei luoghi e della natura circostante. Fu l’idea geniale che in breve tempo conquistò fama in tutto il mondo trasformando la vallata di Citara in un centro unico per il suo genere: I GIARDINI POSEIDON!

 

La voglia di stare insieme

Sapevo che alcuni amici, di sera, si riunivano al teatro Europeo di Lacco Ameno per mettere in scena La Nemica, commedia in tre atti di Dario Niccodemi. La protagonista era Gerarda, la giovane  figlia del grande e unico Rino Gamboni detto “Zeffirelli” perché oltre ad essere un ottimo organizzatore era impegnato anche nella regia. Il protagonista  maschile era Gianni Hebert che aveva al suo attivo esperienza nel mondo cinematografico.  

Rino Gamboni era molto conosciuto sull’isola. La sua esperienza andava ben oltre i confini nostrani. Fin da giovanissimo aveva organizzato un memorabile Presepe Vivente a Casamicciola.

Il Pio Monte della Misericordia era il “tempio” dove dava ampio spazio alla sua creatività in una sala adibita a teatro.

Ritrovarsi la sera al teatro Europeo, dopo una giornata lavorativa o di studi, era il punto di riferimento e di aggregazione di ragazzi del posto. Si passava la serata fra prove e scherzi vari, poi si andava a cena a casa di qualcuno del gruppo o in un ristorante.

Il buon “Zeffirelli” oltre alla regia doveva curare i costumi e le scene. Delle signore “sarte” di Lacco Ameno si prestavano alla realizzazione dei costumi.

Nella rappresentazione della Nemica, quando si era già verso la fine delle prove mancava ancora il personaggio che impersonasse Lord Lamb. La parte destinata a questa figura non era incisiva: doveva fare una sola breve apparizione. Così alcuni amici che partecipavano alla commedia pensarono a me per l’interpretazione. Ero impegnato con la direzione del Reginella che si trovava nello stesso complesso e avevo poco tempo a disposizione.

Mi piacque l’idea, Rino Gamboni disse di non preoccuparmi perché dovevo pronunciare solo poche battute. Mi disse testualmente: “le battute che devi recitare sono brevi ma devi pesarle, parlare lentamente, a testa alta, metterci enfasi poi la tua “erre moscia” farà il resto.

Ecco la mia “erre moscia”  oggi è apprezzata, ricercata. Ma quando ero bambino quanti problemi mi ha arrecato! Fino all’adolescenza non parlavo mai in italiano perché questa carenza linguistica si notava ancora di più. Il problema nasceva quando in classe dovevo leggere ad alta voce e si trovavano più erre nella stessa parola. Era un problema perché oggetto di scherno da parte degli impietosi coetanei. In paese ero l’unico o uno dei pochi ad avere questo “privilegio”.

Oggi si parla di bullismo ma all’epoca era la quotidianità. Per fortuna col tempo questo “complesso” è scomparso. Quando sono diventato padrone di me stesso la “erre moscia” è diventata una mia caratteristica e un punto di forza della mia personalità.

Anche se non avevo calcato prima un palcoscenico ero emozionato non poco. Grazie ai consigli  dell’esperto regista quelle poche frasi da me recitate, da vero Lord, fecero molta presa sul pubblico e fino a qualche tempo fa qualcuno ricordava ancora la mia apparizione sulle scene!  

Al primo di ottobre iniziava l’anno scolastico.

Con gli auguri di buon anno scolastico!

La scuola elementare al primo di ottobre riapriva i battenti. Noi ragazzi eravamo contenti di rivedere gli amici di classe perché anche se Lacco Ameno è il più piccolo comune dell’isola, non sempre ci si incontrava durante le lunghe ferie estive.Ormai tutti i turisti erano partiti e incominciava a spirare “u vient a terra”, iniziavano i primi freddi. Indossavamo il grembiulino nero col colletto bianco legato con un nastro. La cartella era di cartone o di stoffa con dentro un quaderno a quadretti, uno a righi e la carta assorbente bianca. Un libro, una matita, un pennino inserito su un’asticina di legno, una gomma, un temperamatita e un osso di seppia che raccoglievamo sulla spiaggia dopo una mareggiata. Esso era molto utile per scrostare l’inchiostro dal pennino.L’aula era spoglia, al centro campeggiava la cattedra del maestro sopra una pedana di legno in modo da avere dall’alto il controllo della classe. Sopra la cattedra c’era il Crocefisso appeso al muro, a sinistra della posizione del maestro c’era la lavagna a muro con una pedana di legno sotto di essa per mettere a proprio agio chi era più piccolo di statura, un cassino di stoffa e un pezzo di gesso. In fondo all’aula c’era un attaccapanni agganciato alla parete con sopra una carta topografica dell’isola d’Ischia che attirava l’attenzione di noi ragazzi per l’indicazione dell’estrema costa a Est che portava il nome di “Punta della Pisciazza”. Lascio immaginare il divertimento di noi bambini nel pronunciare quel nome. A destra del maestro c’era un armadietto dove erano custoditi i quaderni di bella copia coi voti, il registro scolastico e l’album da disegno per ogni allievo. I nostri banchi erano disposti in fila, erano pitturati in grigio e nero. Al mattino passava la bidella Luisella per aggiungere ai calamai, inseriti nel banco, l’inchiostro mancante.Le aule erano senza riscaldamento, le finestre per fortuna erano esposte a Mezzogiorno così si evitava di avvertire il vento impetuoso e freddo della tramontana. Alle 8,30 suonava la campanella e tutti gli alunni dovevano essere in classe, il portone dell’istituto veniva chiuso alle 9,00. I ritardatari venivano mandati a casa.Quando il mare era agitato con onde gigantesche, i ragazzi del rione Capitello e zona limitrofa avevano problemi con le onde, allora c’era un adulto più esperto che aspettava un lasso di tempo quando il mare era un attimo più calmo per farci oltrepassare il pezzo di strada meno protetto. Non c’erano ancora le scogliere.Dopo un mese dall’inizio dell’anno scolastico, ai primi di novembre, le tre barche più importanti della tonnara: u’ Caparaise, u’ Scieve, e l’Abbazia venivano tirate a secco ed era un vero avvenimento per noi piccoli. In primavera queste barche venivano ancorate fuori la punta di Monte Vico con le rispettive reti. Viste dal lungomare del paese la distanza era grandissima e questi barconi molto grandi sembravano piccolissimi. I pesci che venivano catturati con le reti della tonnara erano tonni di dimensioni enormi, pescispada, pescecani e tanti altri che popolavano le profondità del mare.Nel mio immaginario i pescatori sembravano eroi del mare che, con le loro armi, portavano a riva quello che noi senza di loro non avremmo mai visto. C’è da considerare che i pesci pescati con le reti, all’interno del promontorio di Montevico, non raggiungevano mai la grandezza di quelli pescati dalla tonnara.Oltre alle barche della tonnara, attendevamo con trepidazione l’arrivo delle reti. Nel riparare le grandi reti i pescatori si disfacevano di pezzi di spago sfilacciati, pezzi di sughero spaccati, inservibili e del piombo non più utilizzabile. Allora noi prontamente li recuperavamo per farne decori per il presepe, tappi per le bottiglie, barchette a vela per l’estate. Il piombo lo utilizzavamo per molteplici usi. Questo materiale era oggetto di baratto con le figurine dei calciatori fra noi ragazzi.Sulla strada per andare a scuola c’era “Giuan a peless” che vendeva la frutta sotto a un tendone ed aveva in quel periodo dei cachi enormi, morbidi e dolcissimi. Più avanti c’era il negozio di “Titin a pagliettar” che vendeva i pennini e le asticelle di legno che formavano la penna con cui scrivere. La più richiesta era l’asticina che portava i colori della bandiera italiana. Vendeva i quaderni che avevano la copertina nera, le matite dei colori con lo stemma di Giotto, lo stesso che stava sugli album da disegno. Titina portava gli occhiali di vetro bianco senza montatura, ti scrutava, era di poche parole, metteva soggezione come una maestra. Di fronte al suo negozio c’era il “sale e tabacchi” di Luisella e Mattia. Sul bancone campeggiavano due grosse campane di vetro con dentro caramelle di tutti i gusti dal sapore di orzo alle liquirizie per non parlare di quelle alla frutta che erano avvolte con carta lucida e colorata. Anche loro vendevano materiale scolastico e furono i primi a portare la penna biro che aveva l’inchiostro inserito direttamente nella penna. Quest’invenzione fu una grossa novità, non dovevi usare più i pennini che si guastavano in continuazione, bastava una caduta sul pavimento e le punte si rovinavano. Per non parlare dei calamai d’inchiostro che spesso si rovesciavano causando macchie indelebili. Agli inizi anche le penne biro procuravano danni perché scoppiavano all’improvviso, col caldo nella cartella. Col tempo furono perfezionate e sostituirono definitivamente i romantici pennini che per secoli sono stati usati per tramandarci cultura e sapere.