Bar “Capitello”

Lacco Ameno mi ha sempre dato l’impressione di una grande famiglia. Anche se c’erano ragazzi che non frequentavi, erano sempre dei conoscenti come dei parenti di 3 o 4 grado. Non mi sono mai sentito estraneo. A volte rimanevo all’estero per lunghi periodi, al ritorno bastavano pochi giorni e ti sentivi accolto e membro di una comunità.
Come la maggior parte dei miei amici ho iniziato a lavorare già da piccolo. Come detto in un “mio ricordo” precedente, per poter partecipare al sorteggio della statua del Cuore di Gesù trascorsi tutta un’estate a portare avvisi telefonici per il territorio.
Con mia sorella Tita lavorammo sopra al bar dello stabilimento balneare “Capitello” i cui proprietari erano di Napoli ed erano delle persone molto a modo e simpatiche. Il bar era il punto di ritrovo di tutti i villeggianti della spiaggia del “Fungo” e anche dei ragazzi del rione Capitello. Il turno di lavoro copriva le ore dal mattino alla sera. Il tormentone di quell’estate era “Legata ad un granello di sabbia” di Nico Fidenco. Noi non avvertivamo la fatica perché quel bar era il punto d’incontro dei nostri coetanei e noi eravamo sempre al centro della scena.
Anche Giovanni Ballirano, che da ragazzo aveva un rigonfiamento sopra un occhio, aveva le battute pronte e sagaci. I suoi battibecchi con Antonio sono rimasti memorabili. Lo sfotteva perché diceva che la zia prima di partorire sua cugina “Cuncettell” aveva visto “u spirit”. S’era spaventata perciò la cugina era rimasta piccola, piccola. In seguito è rimasto il detto di Giovanni che se qualcuno era basso di statura era perché la mamma in gravidanza aveva visto “u spirit”!
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“E ziti”

La pasta al sugo di pomodoro la si mangiava solo la domenica. A mezzogiorno in tutti i rioni, fuori dalle baracche, c’erano i nonni assieme ai piccoli nipoti che rompevano in piccoli pezzi la pasta che era lunga e spessa. Il suono “clac-clac” prodotto dalla rottura era una musica magica diffusa in tutti i vicoli. I pezzi non risultavano tutti uguali. Quindi c’erano dei pezzi piccolissimi e quelli molto duri della piegatura della pasta che erano i più ricercati perché erano più “rusicarielli”. La salsa avvolgeva questa ricercatezza che era condita con il gusto dell’appetito. L’odore della cottura della salsa di pomodori della campagna, che aveva “pippiato” insieme alle “tracchie” di maiale tutta la mattina, aveva sviluppato il desiderio di assaporarla. La fame faceva il resto! www.peppinodesiano.it

“E cresommole” (albicocche)

“E cresommole” (albicocche) erano oggetto di desiderio! Nell’area dove sorge attualmente l’edificio delle scuole Medie a Lacco Ameno, si produceva un vino di ottima gradazione, era anche la zona ideale per la coltivazione di piante da frutta: le pesche e le albicocche venivano coltivate in abbondanza e poi d’estate vendute al mercatino locale. Durante la “controra” andavamo in località “Lava” a fare il “menale”. Ci muovevamo sempre a gruppi di 5 o 6 ragazzi e andavamo a mangiare “e cresommole” direttamente sugli alberi. Io sceglievo sempre le più mature che erano le più dolci, molto spesso le mangiavamo con tutti i vermi bianchi che erano all’interno del frutto. Non sazi, raccoglievamo altri frutti e li mettevamo all’interno della canottiera. Non sempre il colpo andava liscio perché più bande di ragazzini dai rioni del Capitello e Laccodisopra avevano preso di mira le piante di albicocche e di ciliegio di questa località. Per questo motivo i proprietari, d’estate, durante il pomeriggio, si riposavano sotto gli ombreggianti alberi di noci in compagnia dei loro cani per arginare i continui furti che i ragazzi del posto mettevano in atto. All’epoca, oltre all’emozione del “menale”, questa frutta la mangiavamo per fame perché quella che comperavano i nostri genitori non era mai abbastanza.
Oggi capita spesso passare per un appezzamento di terreno con alberi carichi di frutta e vedere un tappeto di questo dono della natura marcire per terra perché nessuno lo raccoglie. Per non parlare degli alberi d’arancio e limoni. In passato, era inconcepibile trovare della frutta per terra, non raccolta, anche perché i proprietari regalavano arance e limoni che si staccavano dall’albero per il forte vento ai vicini o a chi ne faceva richiesta. Le spremute d’arancia erano dolcissime in particolar modo al mattino. www.peppinodesiano.it
Foto scattata da Via C. Colombo intorno al 1885. Come si nota l’edificio scolastico non c’era.

” U’ Wagnel”

 

Un discorso a parte, nei miei ricordi, merita mio cugino Vincenzo De Siano detto “U’ Wagnel”.

Ho sempre pensato che la sua verve, la sua giocosità avrebbero dovuto avere un altro incanalamento.

Fin da piccolo era terribile, non faceva stare in pace nessuno, specialmente alcune signorine anziane che abitavano nel rione di “Laccodisopra” vicino a casa sua. Coi suoi scherzi le torturava e queste erano di una pazienza infinita. A mano a mano che cresceva, Vincenzo era richiesto e conteso da tutte le comitive perché aveva la battuta pronta e teneva banco per una serata intera. Ricordo che da ragazzi, trovandoci a mangiare nel terrazzzo esterno del ristorante Cecilia di Ischia Porto, fece una delle sue battute mentre mangiavamo spaghetti al sugo di cozze. Non so come successe che uno spaghetto, per il troppo ridere, uscì dal naso di uno del gruppo; la scena fu tanto esilarante da coinvolgere anche gli altri commensali del locale.

Le scenette divertenti da lui ideate sono rimaste famose. Uno scherzo che fece scalpore fu quando si presentò assieme ad altri amici, vestiti elegantemente, con una borsa contenente una “rollina” e altri attrezzi da geometra, in un villaggio dell’entroterra dell’isola. Si piazzarono in mezzo alla piccola piazza dove gli abitanti erano radunati e discutevano di una partita di calcio: Vincenzo e gli amici si avvicinarono con indifferenza, non essendo conosciuti da quelle persone, si spacciarono per tecnici della Provincia di Napoli, venuti per prendere delle misure, spiegando alle persone del posto che la strada doveva essere allargata per il passaggio di bus turistici. Alcune delle case che sorgevano sulla strada principale del paese dovevano essere abbattute. La voce si sparse in un battibaleno, una folla di persone uscì da tutti i vicoli e casali del villaggio armati di mazze e pale e in men che non si dica il gruppetto fu messo in fuga e inseguito fino alle auto.

L’episodio è antecedente al film “Amici miei”. Il cabaret o il cinema sarebbero stati la collocazione ideale per il talento di Vincenzo!

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“u menale” (mangiata di contrabbando)

Si sapeva che l’orto antistante la piazzetta dove noi eravamo soliti passare tanto tempo a giocare era circondato da mura invalicabili, alte più di 3 metri con pezzi di vetri rotti messi sulla sommità per impedire l’accesso al terreno sovrastante. Il fondo aveva un dislivello di 2 metri rispetto la strada. Per noi ragazzi la tentazione di andare a fare un “menale” (mangiata di contrabbando) di saporiti e teneri finocchi era irresistibile nonostante la minaccia che, se ci avessero scoperti, ci avrebbero scagliati i cani contro e che cani, un maschio e una femmina di pastore tedesco! La sera eravamo soliti giocare a pallone, a quell’ora c’era poca gente in giro per strada così, una volta approfittando del buio, si decise di fare il “menale” di finocchi. I più grandi del gruppo conoscevano un punto della “grande muraglia” dove era possibile scalare il recinto con meno rischi. Decisi anche io di tentare la scalata. Gli altri erano più esperti di me, era il mio primo tentativo. Io salii per secondo, una volta giù nell’ampio orto mi trovai davanti a filari interminabili di finocchi, verze, cavoli e una grossa varietà di ortaggi di stagione. La luna illuminava il terreno e così fu facile per noi raggiungere il filare dei finocchi e scegliere i più rigogliosi, ne prendemmo anche per quelli che stavano fuori, al di là del muro, che ci avevano sostenuti nella scalata. Inutile descrivere la bontà di quegli ortaggi che erano ancora pieni di terra, li pulivamo con il folto ciuffo del fogliame. Una volta entrati nella proprietà, mi colpì la vista di un muro altissimo che ostruiva completamente la vista del palazzo che confinava col terreno dove noi ci trovavamo. Questa grossa villa d’inverno era vuota perché gli occupanti vivevano sul continente, fra Napoli e Roma. Usavano questa abitazione solo nel periodo estivo. I vecchi del paese raccontavano che il muro fu fatto costruire dal proprietario del terreno, dove noi ci trovavamo in quel momento, per impedire alla famiglia proprietaria della grossa villa la vista sulla sua proprietà. Ciò a causa di contrasti infiniti di vicinato, servitù e antiche ruggini. Gli Ischitani sono molto aperti e cordiali coi forestieri ma litigiosi e inflessibili col vicinato locale. Questi due confinanti erano la dimostrazione pratica della mentalità dell’isola. La coppia proprietaria dell’orto non aveva figli e quando erano seduti fuori al terrazzo della loro bellissima e panoramica villa, i confinanti, per umiliarli, si mostravano con i figli fra le braccia e alzandoli al cielo gridavano: “pianta secca accetta, accetta…” (la pianta secca è da tagliare).
Mentre ero assorto a immaginare queste scene del passato, sentimmo l’abbaiare dei cani che ormai ci avevano scoperti e si avvicinavano velocemente. Gettammo via i finocchi al di là del muro di cinta per scappare. Ci dirigemmo verso il punto più facile per scavalcare. I cani ormai erano vicinissimi. Per la paura e la disperazione riuscimmo a raggiungere la sommità del muro ferendoci malamente coi vetri taglienti. Due ragazzi si tagliarono profondamente le braccia, qualcun altro le gambe ed ebbero bisogno di alcuni punti di sutura. Per quell’anno non ritornammo più in quel paradiso terrestre; oltre a fortificare con ulteriori vetri taglienti il proprietario circoscrisse il terreno con più giri di filo spinato.
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Lacco Ameno visto da Montevico, 1930.

La festa del Corpus Domini

Momento di aggregazione e competizione era la festa del Corpus Domini. C’era la gara fra i vari rioni a chi preparava l’altare più bello e fantasioso. I ragazzi più piccoli assieme ai più grandi venivano divisi in gruppi e ogni squadra doveva portare un tipo di fiore: dai gerani variopinti alle ginestre e ai fiori selvatici coloratissimi che poi servivano per creare un tappeto lunghissimo dove passava il prete che portava il Santissimo. Il risultato era di grosso effetto: un vero capolavoro. Le donne provvedevano a creare l’altare con le stoffe più preziose e ricamate del loro corredo di sposa. Di solito il più bell’altare era quello del rione Ortola, dove c’erano dei veri artisti e tutti gli abitanti della contrada partecipavano con entusiasmo alla realizzazione dell’opera. Lateralmente all’altare creavano degli angeli di cartone a grandezza d’uomo che visti da lontano sembravano reali. Per non parlare dei tappeti di fiori che rappresentavano figure di Santi, calici, ostie. La fantasia non aveva limiti.
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Il trampolino dello Sporting

La tentazione più forte, per noi ragazzi, era rappresentata dal trampolino, riservato ai più audaci e incoscienti. Consisteva in un’asta di una decina di metri che si ergeva maestosa e variopinta in mezzo al mare circondata da anelli colorati che a mano a mano, mentre salivi, si restringevano. L’emozione era fortissima, per fare abbattere l’asta dovevamo arrivare all’anello più alto e la discesa a mare era bellissima, sensazione di leggerezza e di volo! L’asta dai suoi 8 metri lentamente si curvava e ti lasciavi andare facendo un tuffo da una considerevole altezza oppure seguivi l’abbassamento dell’asta fino in acqua facendo una eccitante planata. A volte salivamo contemporaneamente in 3 o 4 così, per il peso, l’asta si abbassava prima. Non mancavano le vittime, fortunatamente non mortali, perché tante volte, data la bassa marea o il passaggio di un motoscafo che ci voleva far provare il brivido dell’oscillamento, l’asta non si abbassava dato che il peso di un bambino di 7 o 8 anni non era sufficiente a provocarne l’abbattimento. Tante volte, ondeggiando coi piedi bagnati su anelli altrettanto umidi, anche io persi l’equilibrio, scivolai e presi tutti e 30 gli anelli, come una scarica di pugni, cadendo rovinosamente sulla piccola pedana di ferro che reggeva l’asta.
Mi spezzai un dente. Che esperienza! Per mesi quell’asta non avevo nemmeno il coraggio di guardarla. Dopo il mio incidente (uno dei tanti) l’asta fu rimossa con la gioia dei nostri genitori!
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I primi villeggianti

Fra noi e i villeggianti c’era una barriera enorme di mentalità e di costume. Parliamo degli anni ’50. La maggior parte erano tutti professionisti o ricchi commercianti. Quando arrivavano era una festa perché sbarcavano dalla nave detta “Passeggiata” al molo di Lacco Ameno. Era una folla di persone festanti, colorata, vociante che si rincontravano dato che si conoscevano dagli anni precedenti. I bambini portavano i propri giocattoli come secchelli, palette. Molti di noi, ragazzi del posto, adocchiavamo questi ragazzi per poi fare una corsa o aspettare giù alle scale, al momento della loro partenza, per vedere se avevano lasciato qualche palla sgonfia, qualche formetta colorata per modellare la sabbia bagnata, qualche palettina ammaccata, qualche salvagente. Ma a dispetto degli altri villeggianti, i nostri erano quelli che restavano più a lungo degli altri, se non si guastava il tempo nemmeno i fulmini e saette li invogliavano a partire. Tante volte dopo la lunga attesa della partenza non trovavo niente perché la donna di servizio del posto li aveva portati ai suoi figli o ai nipoti. Qualche volta in punti dimenticati del terrazzo trovavo qualche secchiello ammaccato o palla sgonfia, quegli oggetti ci facevano sentire, per gli ultimi bagni settembrini, come “figli dei signori”. Le ragazze, che erano più belle di quelle locali forse perché vestivano meglio e più curate, avevano nomi più moderni da Adriana a Silavana, mai sentivi chiamare una Nannina o Vincenzina. Anche i nomi dei ragazzi erano più nuovi e ricercati, da Maurizio, Guido persino il nome di chi da noi si chiamava Gennaro diventava Genni o Rino, da noi Salvatore come diminutivo era Totore, per i villeggianti era Salvo, Sasà. Da noi anche un bel nome tipo Chiara veniva distorto in Chiarina oppure Chiarenella. I villeggianti indossavano magliette nuove comperate appositamente per la vacanza, per noi era un sogno, forse solo quando arrivava Gigginiello, con le sue pezze vecchie usate, potevi vedere qualcosa di simile a quelle dei villeggianti. La nostra divisa era una mutanda sgualcita con una canottiera ricavata dalle pezze. Le famiglie del posto, anche se abitavano in una baracca, comprendevano oltre ai genitori anche due nonni e 7 o 8 figli. Noi eravamo l’eccezione, eravamo solo tre figli.

La scogliera del Regina Isabella

Il trasferimento della mia famiglia alla nuova casa di via Roma coincise con l’arrivo di Rizzoli sull’isola d’Ischia. La trasformazione fu repentina da paese di pescatori a meta ambita da tutta la bella gente internazionale. In quell’epoca Ischia ed in particolare Lacco Ameno fu paragonata a una piccola Hollywood. Mi ricordo che potevi incontrare sulla scogliera, coperta da cemento  fatta costruire da Rizzoli nel mare antistante il Regina Isabella, Esther Williams, Hitchcock, il grande Chaplin.

Ero un ragazzino di 7 o 8 anni e insieme ad altri coetanei eravamo la disperazione del bagnino Vitale che cercava di cacciarci. Noi eravamo attratti dalla pedana galleggiante da cui ci si poteva tuffare o riposare dopo una lunga nuotata. Questa pedana si trovava a circa 100 metri dalla scogliera e per noi rappresentava un miraggio. Era fatta di legno, sotto era vuota e tutte le estati veniva rinnovata e pitturata in bianco e blu. La superficie era coperta da uno spesso telo di canapa. Un’altra grande attrazione era la scogliera dello Sporting geometricamente perfetta a cui si accedeva da una scala di ferro riservata alla clientela degli alberghi. Anche usufruire della doccia per noi era una grossa novità, chi l’aveva mai vista prima? A frotte correvamo a farla e il cagnesco Vitale ci correva dietro. Tutti a tuffarci in acqua. www.peppinodesiano.it