Il mio primo viaggio in aereo

Al nostro arrivo all’hotel, ci sistemarono nella casa del personale che era a mezzora a piedi dall’albergo, si trovava nei pressi dell’aereoporto di Cointrin
Non c’erano bus di collegamento fra l’abergo e l’appartamento, la maggior parte dei dipendenti andavano a piedi tranne qualcuno che aveva un mezzo di trasporto proprio. Quindi in caso di neve o pioggia eri costretto a camminare. I miei turni di lavoro erano abbastanza impegnativi. Dovevo essere presente al lunch e al diner che era danzante e si finiva alle 2 di notte. La cassa era ubicata in una gola a fianco del montacarichi, all’ultimo piano dell’albergo, in una cucina secondaria.
Il ristorante dancing “Carnaval” era ubicato all’ultimo piano dell’albergo che era la costruzione più alta di Ginevra, godeva di un panorama unico: la citta col lago Lemano e le montagne circostanti offrivano un panorama mozzafiato. In ogni angolo della sala la vista cambiava. Lo Scià di Persia Reza Pahlavi con la moglie Farah Diba e la sorella di lui Ashraf Pahlavi erano clienti abituali, come anche altri ricchissimi arabi che all’epoca comperarono mezza città di Ginevra. Pur di prendere il certificato di lavoro di quell’albergo prestigioso resistetti per quasi un anno. Gli orari erano massacranti e la chiusura dei conti avveniva al momento di fine servizio del ristorante. Il tutto veniva eseguito a mano! Questa cassa era molto gravosa e molti ragazzi rifiutavano il posto dopo pochi giorni. Quando andai a Ginevra pesavo 75 kg, al ritorno a casa i miei compaesani pensavano che avessi contratto una malattia dal momento che non m’avevano mai visto così magro! La direzione riconobbe il mio impegno nel portare a termine il mio lavoro nel migliore dei modi senza mai lamentarmi e fare alcuna assenza.
Nel periodo natalizio l’albergo era solito organizzare la festa del personale con pranzo accompagnato da orchestrina in uno dei saloni più belli ed ampi dell’albergo, i camerieri e il personale di cucina venivano presi dall’esterno in modo che sia il personale di cucina che quello di sala dell’albergo potessero godere anche loro la festa. I tavoli erano organizzati per reparto così ognuno di noi era a proprio agio in compagnia di colleghi. In questa serata venivano aperte le scatole sigillate dove ogni cliente, durante l’anno, aveva inserito la preferenza per la persona di servizio più simpatica, in un’altra scatola quelli che si erano distinti per la cortesia. Veniva premiato anche chi come me non stava al pubblico, erano gli stessi capi reparto a nominare i più meritevoli. L’amministrazione, di cui facevo parte, mi assegnò un premio per il mio impegno. Il regalo consisteva nel poter effettuare un giro su di un aereo-piper di 20 minuti nel cielo di Ginevra. L’invito era per due persone così chiamai con me il mio compaesano Peppino Di Spigno che lavorava in un altro albergo di Ginevra di grande tradizione e prestigio. Presi appuntamento col pilota che parlava molto bene italiano. Ci incontrammo al ristorante Moevenpick lungo il lago Lemano, poco distante dal famoso getto d’acqua; ci portò con la sua auto all’aereoclub, a una mezz’ora d’auto dal centro della città. Durante il tragitto vivevo in uno stato di eccitazione, smania e timore per quello che avrei provato appena salito sul piper. Anche il mio amico era entusiasta perché come me non era mai stato su di un aereo e aver provato l’ebbrezza del volo, così io montai a fianco del pilota e Peppino dietro. Ci volle molto poco per entrare in sintonia con l’aviatore. Lui aveva partecipato più volte alla competizione di volo che si teneva ogni anno in Sicilia. Ci mise a nostro agio e ci sentimmo sicuri di mettere le nostre vite in mano ad una persona di cui ormai ci fidavamo ciecamente, l’adrenalina per questa nuova esperienza era fortissima. L’accensione del piper avvenne con movimenti di grossa esperienza e maestria, l’aereo prese una rincorsa di circa 400 metri e in breve tempo il mezzo si alzò da terra ed iniziò il decollo. La sensazione di volare era indescrivibile, impareggiabile: vedere la terra sotto di noi e l’aereoplano che si alzava sempre di più era un sogno che diventava realtà e io ero in prima fila a fianco al pilota! Dopo i primi minuti di volo gli chiedemmo di fare le giravolte col piper come accadeva nei film di guerra quando un aereo veniva abbattuto oppure andare in picchiata come quando si colpiva con le bombe un obiettivo nemico. Ci spiegò che era vietato, le autorità svizzere avrebbero arrestato lui e noi. Comunque una sorpresa ce la fece regalandoci un’emozione unica, portò il piper un po’ fuori lo spazio del cielo di Ginevra. Iniziò a salire alto, i timpani stavano per scoppiare e poi scese rapidamente in picchiata rasentando le cime degli alberi. Io e il mio amico eravamo tutti e due bianchi con un misto di emozione, eccitamento e spavento. Lui ci guardava divertito pensando che saremmo morti dalla paura invece eravamo più gasati che mai! Anziché fare il volo di venti minuti prolungò l’esperienza ancora di dieci con nostra somma gioia e l’incoscienza della nostra giovane età!

Il viaggio in Svizzera

I miei nuovi amici sardi incominciarono a descrivere la bellezza della loro terra e il dolore per aver lasciato le famiglie con figli piccoli per guadagnare un po’ di soldi. Volevano comperare del terreno per costruire una casa nuova perché il nucleo familiare cresceva. Era la medesima situazione in cui ci trovavamo noi Ischitani. Dopo Firenze un posto si liberò e ci sedemmo a turno. Piano piano c’era gente che scendeva dal treno e altri che salivano, così ci sistemammo tutti e 4 e altri che erano saliti con noi a Napoli ormai diventati amici. Inizialmente i sedili erano confortevoli e accoglienti specialmente per noi che, fin dalla partenza, avevamo trovato un piccolo spazio vicino agli spifferi gelidi della porta e l’odore malsano del bagno. I posti a sedere erano in legno e ben presto incominciammo a dolerci per il troppo caldo, in particolar modo per il sedile che scottava: sembrava d’essere seduti su una graticola. Eravamo costretti ogni tanto ad alzarci e camminare scavalcando persone e cose sparpagliate lungo il corridoio. Chiudere gli occhi per un sonnellino era impossibile perché non si poteva stare seduti a lungo, così ci alternavamo con quelli che erano in piedi. Nella prima mattinata del giorno seguente arrivammo finalmente alla frontiera, se non erro era la città di Briga. Salirono i gendarmi e incominciarono i controlli delle valigie e le domande di rito. Siccome ero sprovvisto di contratto, mi fecero scendere assieme a una moltitudine di connazionali e ci portarono in dei capannoni dove c’erano già altre persone. Mi diede l’impressione d’essere trattati come dei buoi ammassati che dovevano essere contrassegnati con un ferro rovente. Col freddo che faceva in quei capanni avevo il rimpianto di quel sedile surriscaldato del treno.
Dopo aver spiegato il motivo del mio viaggio, mi trasferirono in un’altra stanza da dove telefonarono all’albergo e l’ufficio del personale confermò il mio ingaggio. Mi portarono in un altro padiglione con un freddo pungente, mi fecero spogliare per passare la visita medica. Dopo questo increscioso rituale ci diedero la possibilità di vestirci e recuperare i nostri bagagli. Aspettammo un altro treno per raggiungere ognuno la propria differente destinazione. Così insieme ad altri andai al bar della stazione per prendere un caffè bollente e qualche biscotto. Cercai qualcuno che andasse a Ginevra. Incontrai un ragazzo pugliese che aveva un contratto di lavoro nel mio stesso albergo mentre altri andavano in differenti città della Svizzera. Alcuni come me erano al loro primo viaggio, altri già erano stati precedentemente in altre città elvetiche. La maggior parte di essi lavorava nell’edilizia, venivano sistemati in delle baracche senza riscaldamento e con un minimo d’igiene. I miei nuovi compagni di viaggio mi guardavano come un privilegiato dal momento che avrei occupato un posto di cassiere in un noto albergo di Ginevra senza sapere che avrei guadagnato giusto i soldi per pagare il fitto della casa e del corso di lingua francese.
I nuovi conoscenti raccontavano i disagi che pativano stando lontano dal posto natio, rimanevano per mesi segregati nel villaggio per non sperperare i soldi, mentre a quelli più giovani, che volevano andare qualche sera a settimana in un bar o locale da ballo, capitava che era precluso l’accesso perché italiani.
Appena scesi dal treno a Ginevra mi informai per un bus che andasse nei pressi della nostra destinazione. In Italia pensavo di cavarmela con la lingua francese, una volta sul posto mi accorsi che, con i legamenti che i Ginevrini facevano fra una parola e l’altra, non ci capivo niente. Dopo una mezzoretta di tragitto raggiungemmo la nostra meta. L’hotel si presentò in tutta la sua maestosità: era la costruzione più alta di Ginevra, a pochi passi dal Palazzo dell’ONU. Non sapendo dove fosse l’ingresso per il personale, ci recammo all’entrata principale per chiedere al doorman informazioni. Il mio amico di viaggio si chiamava Antonio, era alto, grosso e chiaro di carnagione, somigliava più a un montanaro svizzero che a un ragazzo meridionale. Appena vedemmo la spettacolarità dell’albergo: scale mobili che salivano senza fermarsi mai, velocissimi ascensori che muovevano un flusso di persone in entrata e in uscita, al piano terra una mostra d’auto luccicanti e modernissime, rimanemmo attoniti da tanta modernità. Ci avvicinammo all’ingresso, come per magia la porta si aprì da sola alla nostra presenza, Antonio diventò tutto rosso fin su la cima dei capelli ed emise un incontrollabile grido di meraviglia come un ululato: UHUHUHUHUHUH!!! Finalmente eravamo arrivati a destinazione, nell’albergo più nuovo della Svizzera: Hotel Intercontinental Geneva della compagnia aerea americana Pan Am!!!!!!!!

La mia prima partenza

La mia prima e più importante partenza dall’isola d’Ischia capitò un 11 febbraio e mia madre disse che era un giorno benedetto perchè ricorreva l’apparizione della Madonna di Lourdes. All’inizio i miei genitori erano un po’ preoccupati per me, perché ero giovane e non m’ero mai mosso dall’isola. In giro si raccontava della pericolosità di viaggiare in treno da soli. Molti ragazzi di Lacco Ameno avevano intrapreso un viaggio per andare all’estero e parecchi erano tornati indietro perché durante il tragitto avevano loro derubato il portafoglio o l’orologio oppure le valigie. Altri erano stati malmenati. Altri arrivati a destinazione non s’erano trovati bene e fecero subito ritorno a casa. La mia determinazione ad affrontare il viaggio era molto forte, anche perché una ragazza tedesca che avevo conosciuto a Ischia m’aveva assicurato che c’era per me un’occupazione come cassiere di ristorante in un noto albergo di Ginevra, in Svizzera. La procedura per ottenere un’occupazione all’estero era abbastanza lunga, bisognava attendere il tempo della preparazione del contratto, una volta ricevuto questo per posta, bisognava rispedirlo controfirmato. Preferii partire senza contratto, per non perdere tempo. Mia madre mi comperò mutande lunghe e maglie di lana con maniche lunghe che mise in una delle valigie di cartone usate in passato da mio padre. Diceva che in Svizzera c’era la neve e faceva freddo e mi dovevo proteggere. Mi recai a Napoli per prendere il primo treno per la Svizzera.

Arrivato in stazione c’erano file lunghissime agli sportelli per comperare il biglietto. La stazione ferroviaria per me era un mondo nuovo, mai visto prima tanto fermento: passeggeri frettolosi che correvano carichi di bagagli verso i binari per prendere il treno, altoparlanti che annunciavano in continuazione partenze e arrivi di treni in diverse lingue, treni che arrivavano e scaricavano fiumi di persone. Tutti correvano. Facchini con carrelli che andavano in tutte le direzioni. Tassisti abusivi che ti chiedevano se avevi bisogno di un taxi. Donne che vendevano sigarette “con lo sfizio”, altre con trucco pesante dagli occhi ammiccanti vendevano “l’attesa del treno con lo svago”. Persone che vivevano di espedienti per sbarcare il lunario. In ogni persona vedevo un imbroglione che avrebbe voluto derubarmi di quei pochi soldi che avevo con me. Una volta salito sul treno non c’era posto a sedere, era già pieno. Trovai un po’ di spazio nel corridoio davanti ai bagni, dove c’erano già altri passeggeri. Il treno era stracolmo e popolato da nuclei familiari che si trasferivano al Nord Italia e altri che raggiungevano la Svizzera per lavoro. Sembrava il treno dei deportati! Alcuni di loro parlavano in un dialetto mai sentito prima. Tutti avevano valigie, pacchi e borsoni disseminati dappertutto. Il puzzo di fumo era soffocante, i bagni, già molto usati, spandevano l’odore acre di urina impregnata nel pavimento. Durante il viaggio mi venne voglia di andare in bagno ma, con la paura che mi rubassero la valigia, ci rinunciai. Poco distante da me c’erano due uomini sulla quarantina e un terzo più giovane, accovacciati sulle gambe, con la pelle olivastra e gli occhi piccoli e neri. Da quando ero salito sul treno mi guardavano con sospetto e non mi rivolgevano la parola, parlavano un dialetto a me sconosciuto, ma da qualche reportage sulla Sardegna, visto in TV, sembrava che la loro lingua fosse quella sarda. Il treno aveva lasciato la stazione e ci trovavamo in prossimità della Capitale. A un certo punto le luci del treno divennero più soffuse. Il più anziano dei tre estrasse un coltello, di quelli col manico d’osso bianco con venature grigie, imprecando nella sua lingua. Con quello che avevo sentito al mio paese dai miei compaesani incominciai ad essere assalito dall’insicurezza, da poco c’era stato un sequestro di persona da parte dell’anonima sarda. Trattenni il fiato perché la vescica piena mi bruciava, stava per scoppiare. Anche se il treno era affollato pensai: adesso mi punteranno il coltello in un fianco intimandomi di dar loro i soldi, l’orologio e la collanina. A un certo punto il più giovane del gruppetto iniziò a rovistare in uno dei sacchi che avevano con sè e prese anche lui un coltello col manico più lungo di quello del suo amico e si scambiarono delle espressioni fra di loro bestemmiando come se non trovassero qualcosa. Terrorizzato non sapevo cosa fare: lasciare la valigia e andare verso il corridoio oppure chiudermi nel bagno. Mentre ero tempestato da questi timori, il terzo componente aprì il suo zaino e cacciò fuori una borsa di stoffa nera, poi un’altra ancora da dove faceva bella vista un panno da cucina con una pagnotta traboccante di scarola riccia, pomodori, melanzane e funghi sott’olio. Come se non bastasse nella seconda borsa c’era un “filone di pane nero” di quelli fatti in casa, una “formetta” di formaggio salato e un salame. Adagiò il tutto sopra una delle valigie poggiate sul pavimento ed iniziarono a dividersi la cena. Il più anziano mi porse parte della pagnotta, che accettai di buon grado come liberazione di un tormento che mi perseguitava dall’inizio del viaggio. Mi offrirono del vino rosso e tanto bastò per diventare i migliori amici, come se ci conoscessimo da tanti anni. Anche loro andavano in Svizzera, nel Vallese, per lavoro dove erano già stati qualche anno prima. Il viaggio, anche se scomodo, divenne più rilassante: Italiani brava gente!

La voglia di viaggiare

Sentir parlare mio padre dei suoi viaggi è stata la spinta che ha visto nascere in me, fin da piccolo, la voglia di viaggiare e conoscere paesi nuovi. Rimanevo incantato quando mio padre coi suoi fratelli oppure con colleghi parlava dei posti visitati e anche dei pericoli che affrontava durante la navigazione. Mi incuriosivano le scritte in lingua straniera impresse sulle bottiglie di vetro vuote che lui portava a casa per riempirle di succo di pomodoro. Per non parlare della buca delle lettere che era cementata nel muro della “tabaccheria” di Mattia e Luisella. Ero piccolo e non arrivavo ad inserire la lettera nella cassetta perciò mia madre mi prendeva in braccio per imbucarla e farla arrivare a mio padre o a zio Giuseppe in America. Allora pensavo che ci fosse una strada sotto il mare come un canalone che avrebbe portato la lettera a un aereo che aspettava per portarla a destinazione perché sulla leggera busta da lettera, oltre alle strisce laterali bianche, rosse e blu, c’era un rettangolino a sinistra dov’era scritto “par avion” o “via aerea”. Sapevo che oltre l’isola c’era un mondo meraviglioso da scoprire. Quando poi Rizzoli approdò sull’isola d’Ischia e arrivarono turisti da tutto il mondo, la spinta per partire verso nazioni sconosciute fu decisiva. A scuola avevo studiato per 6 anni la lingua francese e per tre la lingua inglese perciò pensavo di conoscere il francese perché durante il periodo estivo ero in grado di scambiare qualche parola con turisti stranieri. Riuscivo a farmi capire discretamente in francese o col mio scarno inglese.
• L’emozione di vedere dal vero un’elicottero atterrare all’eliporto della Fundera era inenarrabile. E che dire delle emozioni suscitate in me dalle prestigiose auto con targhe straniere che sbarcavano sull’isola con autisti in livrea che nemmeno nella città di Napoli avevo mai viste! Alcune erano nere, austere e nello stesso tempo eleganti oppure Jaguar decappottabili, Lamborghini, Ferrari dai colori accesi appartenenti ad industriali accompagnati da donne bellissime. Queste signore spargevano nell’aria profumi mai sentiti prima che inebriavano e davano alla testa, specialmente la sera quando passeggiavano, dopo cena, intorno alla piazza di Santa Restituta. Rimanevi incantato da quello sfarzo. Attori e attirci, calciatori che al momento stavano sulla cresta dell’onda erano tutti lì a portata di mano. Giorgio De Chirico, la sera, era presente all’esposizione dei suoi quadri in uno delle sale intorno piazza Santa Restituta. A Ischia e Casamicciola oltre ai nuovissimi Aliscafi approdavano anche gli Hovercraft. Davanti al complesso degli alberghi di Rizzoli stazionavano il superyacht “Christina” di Aristotele Onassis e altre splendide imbarcazioni. I motoscafi “Riva” scorrazzavano fra la splendida cornice di mare fra Lacco Ameno e Casamicciola con Esther Williams e altri personaggi che praticavano lo sci d’acqua. Nel porto d’Ischia erano ancorati yacht eleganti con pista d’elicotteri.

Grazie a mia sorella maggiore Rosanna che era commessa in una delle boutique più alla moda di Lacco Ameno e aveva modo di parlare con persone influenti, ebbi la possibilità, giovanissimo, di lavorare come cassiere in uno dei night club più prestigiosi dell’isola e direi d’Italia: “O’Pignatiello” appartenente al complesso “Rizzoli”. Qui si esibivano i cantanti nazionali e stranieri più famosi del momento da Aznavour a Peppino di Capri da Ornella Vanoni a Bobby Solo. I clienti habitué erano il principe Otto D’Assia, la sfolgorante Ira Fürstenberg di una bellezza aggressiva e mediterranea, il fratello Egon. Da qui nacque la promessa a me stesso, poi raggiunta sfatando il detto “Nessuno è profeta in patria”, di inserirmi nel mondo turistico alberghiero e scalare step by step fino ad arrivare al top: direttore d’albergo e poi direttore d’agenzia viaggi e dirigere, primo ischitano, uno degli alberghi della compagnia “Rizzoli”. Sono fermamente convinto che ognuno di noi ha un angelo custode a suo fianco, la cui presenza ho sempre avvertita. In tutto il mio cammino, assicuro non sempre facile specialmente all’estero, la presenza è stata tangibile. Un altro ricordo, sempre vivo in me dagli anni della scuola, fu un appassionato commento della poesia “La piccozza” di Giovanni Pascoli da parte della professoressa Antonina Garise che, con la sua voce esile ma molto coinvolgente, mi ha accompagnato per tutti gli anni della mia crescita professionale:
………………..Da me, da solo, solo con l’anima,
con la piccozza d’acciar ceruleo,
su lento, su anelo,
su sempre; spezzandoti, o gelo!
E salgo ancora, da me, facendomi
da me la scala, tacito, assiduo;
nel gelo che spezzo,
scavandomi il fine ed il mezzo………..”