A cavallo del 1800 e 1900 molti ischitani lasciarono lo scoglio in cerca di una vita migliore. Anche da Lacco Ameno che era il più piccolo dei comuni dell’isola partirono tantissime famiglie. Tre fratelli di mio padre, rimasti orfani di madre, non ancora maggiorenni lasciarono il paese. Tutti i fratelli di mia madre partirono anch’essi, rimase solo lei che era la più piccola per accudire la vecchia mamma ormai intrasportabile. La gran parte di essi stazionarono a Brooklyn per poi distribuirsi per gli States. La comunità lacchese rimase compatta e proprio la fede verso la Santa patrona li teneva uniti. Ogni 17 di maggio organizzavano i festeggiamenti in onore della Santa. Raccoglievano una cospicua somma di dollari e puntualmente la spedivano alla chiesa madre per i festeggiamenti nel paese nativo. Quando con la mia impareggiabile moglie, costruimmo il Residence a Baia Sorgeto sotto la prima pietra deponemmo l’immagine dell’amata protettrice. Mi recai a Casamicciola da “Gelormino” Ceramica Mennella, amico dei miei zii, per far riprodurre su ceramica la sacra effigie. Ricordo ancora l’impegno profuso dal bravo Antonio Iacono per la realizzazione di essa. La feci benedire da Don Pietro e l’ho tenuta custodita gelosamente per vari anni. Con la realizzazione della struttura ricettiva scelsi l’angolo più in vista per collocare la preziosa immagine, in modo che anche i passanti che si recavano alle fonti calde della Baia la venerassero. Girando per l’isola d’Ischia se si incontra una statuetta, un’immagine di Santa Restituta, significa che da quelle parti abita un lacchese. Proprio di fronte all’edicola della Martire ho sistemato una panca in legno e ferro, esposta a Sud. Molto spesso in compagnia di un buon libro, anche nei mesi invernali, quando c’è un raggio di sole prendo posto davanti alla sacra effigie. Fra una pausa e l’altra, chiudo gli occhi, il sole mi riscalda la fronte, penetra attraverso le palpebre degli occhi chiusi e irradia piacevolmente tutto il corpo, mi rilassa, mi rigenera. Con gli occhi chiusi ascolto il suono delle campane di mezzogiorno della chiesa di San Leonardo unitamente a quelle della chiesetta in tufo verde dedicata a San Ciro al Ciglio e a quella di Succhivo. Le campane espandono le note dell’Ave Maria di Schubert e l’Ave Maria di Lourdes, la dolce melodia invade la vallata delle Fumerie fino alla costa che abbraccia Baia Sorgeto, la Costa del Capitano e Sant’Angelo. Il silenzio è totale, di tanto in tanto arriva il canto di un gallo lontano. Il profumo degli alberi di limoni e delle campanule gialle (zucamelle) che punteggiano la campagna circostante si amalgama con la fragranza della salsedine del mare poco lontano. Da una delle casette bianche appollaiata sul costone che porta alla Baia arriva l’incantevole melodia di Hallelujah di Leonard Cohen eseguita magistralmente per arpa e violino: la sensazione è sublime, una pace profonda mi libera lo spirito , vado in apnea, la mente vola…! All’improvviso un vento freddo mi assale, una nuvola copre il sole e rompe l’incanto! www.peppinodesiano.it
Il 17 di ogni mese nella chiesa di Santa Restituta ricorreva il giorno dedicato alla commemorazione della Santa. Quello del 17 gennaio era un giorno speciale perché oltre a celebrare la Santa Patrona era la festa di Sant’Antonio Abate. Don Pietro con i suoi più stretti collaboratori sceglieva l’angolo della piazza più riparato dove accatastare il legno vecchio da ardere. Già dal giorno prima cominciavamo a portare le “fascine” e tronchi secchi che si trovavano sulla spiaggia oppure nelle campagne e stradine circostanti il paese di Lacco Ameno. Dopo la funzione in chiesa aspettavamo con eccitazione l’accensione dell’enorme falò e osservavamo con stupore e meraviglia le faville che salivano verso il cielo accompagnate dallo scoppiettio degli arbusti. Il fuoco spandeva calore tutt’intorno e quelle fiamme avevano un’attrazione ipnotica su noi piccoli. Era il periodo più freddo dell’anno ma nello stesso momento le giornate iniziavano ad allungarsi ricordandoci che la primavera incominciava lentamente a fare capolino. In mancanza di televisione o di altri spettacoli ricreativi questo era un momento di divertimento e di aggregazione che ci riempiva di contentezza perchè eravamo appagati in quanto la nostra collaborazione era stata essenziale per il buon risultato dell’avvenimento.
Il 6 gennaio per noi piccoli era la giornata più triste delle vacanze natalizie perchè oltre al ritorno a scuola non potevi nemmeno goderti quel poco di doni che aveva portato la befana. Babbo Natale non esisteva e nemmeno la consuetudine dell’albero di Natale. La festa era tutta religiosa. Dopo la ricorrenza dell’Immacolata, all’inizio della novena di Natale coi miei amici andavamo nel bosco vicino casa o nella selva “Soprammezzavia” in cerca di rami rigogliosi di piante sempreverdi: dalla mortella al corbezzolo e muschio per addobbare il presepe. La struttura di esso era sempre uguale: in angolo a destra c’era la capanna ricavata dai sugheri di scarto trovati sulla spiaggia e di lato la discesa per i re magi ottenuta da rami secchi ricoperti di muschio. Intorno, sul davanti, c’era l’immancabile Benino che pascolava le pecore. Dietro la capanna per mascherare una parete o un mobile collocavamo folti rami di pino dove appendevamo mandarini e arance. Sopra la capanna c’erano i rami di pungitopo con l’ovatta che creava l’effetto neve. Durante il periodo natalizio si sostava davanti al presepe aggiustando e abbellendolo con i pastori di terracotta che erano sempre gli stessi. Con l’immaginazione andavi in quella grotta dove giaceva il Bambinello coperto di uno cencio bianco riscaldato dal fiato del bue e dell’asinello. Quando giungeva il sei gennaio era un trauma perché oltre a finire le vacanze scolastiche dovevi privarti di quel paesaggio costruito con amore e impegno tempo prima. Già la mattina del 6, dopo aver aperto la calza che la befana aveva riempito di noci, fichi secchi, qualche moneta di cioccolata ricoperta d’oro e l’immancabile carbone avvolto nella carta della pasta, si smontava il presepe deponendo con cura i pastori in una scatola a dormire per un anno intero. Il muschio veniva deposto nel terreno del giardino di casa mentre i rami secchi di lauro e mortella servivano alla nonna che preparava un profumatissimo braciere per i giorni a venire.
Con ansia aspettavamo le feste patronali per la gioia e l’euforia che procuravano gli addobbi, le bancarelle, la musica a tutto volume delle giostre che trasmettevano canzoni alla moda di quel momento come un moderno juke-box, rompendo la monotonia della quotidianitàAlla baracca del tiro a segno c’era la bella Ofelia che t’invitava a fare un tiro con il fucile caricato col tappo che serviva a buttare giù i bersagli che consistevano in un pupazzo di stoffa, una palla, un pacchetto di biscotti bovolone, una bottiglia di marsala dalla marca sconosciuta e tanti altri oggetti di poco valore appoggiati su di una mensola. Le bancarelle offrivano giochi innocenti per bambini, in verità ce n’erano pochi. Molti di essi venivano costruiti da noi stessi. Un giocattolo che ricordo ancora era un pezzetto di legno che rappresentava Pinocchio: era ricoperto con carta increspata di colore rosso, a mano a mano che lo spingevi batteva le mani dove si trovavano dei minuscoli piattini, più il giocattolo era mosso, più aumentava il suono. Un passatempo divertente, a volte violento, era la “palla di zazzà”. L’indimenticabile Beniamino spingeva il suo carrello dove, oltre a vendere le “cacuette” (noccioline americane), c’erano le “palle di zazzà” appese a un filo di spago, che correva lungo il suo coloratissimo mezzo di trasporto. Esse ondeggiavano a causa del pavimento sconnesso. La palla era ricoperta da più pezze con colori sgargianti, con dentro la segatura. In cima alla stoffa c’era un occhiello di cotone dove era inserito un filo di elastico lungo circa un metro. Il filo veniva legato al dito medio dei compratori e la palla veniva lanciata a mo’ di palleggio (tipo yoyo) e poi all’improvviso la scagliavi sulla testa del malcapitato di turno. Succedevano lotte divertenti e a volte violente con inseguimenti fra i vicoli o sulla spiaggia. Molto spesso nella lotta, il filo e la palla si attorcigliavano con l’elastico dell’avversario con la rottura della palla e la segatura che fuoriusciva da essa imbrattando gli indumenti, causando un fastidioso prurito per tutto il corpo.Ci si accontentava di poco e più che altro questo gioco era divertente per avere un motivo per rincorrersi, mettere sgambetti e trovare un vincitore che si vantava con gli altri per aver primeggiato sui coetanei.
E’ giovane e sveglio, occhi neri grandi e profondi. Capelli ricci arruffati difficili da pettinare: i pidocchi si annidavanono numerosi nella sua chioma. Arrivava prima la puzza di ddt e poi lui. Ma a quell’epoca l’odore dell’antiparassitario era comune, veniva usato per tutti gli usi. Per combattere le mosche ma anche tutte le forme di parassiti, bastava una “flittiata” e gl’insetti scomparivano. La povera Luciell, la madre di Ciruz, per combattere questi parassiti, che nemmeno il pettine stretto riusciva a togliere dalla testa, portò il figlio da “on Lumminc u barbier” e in quattro e quattr’ otto fece tagliare a zero i riccioli increspati del figlio.
Da “Titina a paglittar” comperavamo “u strumml” (trottola) che consisteva in un cono di legno con una punta di ferro all’estremità. Ce n’era di diversa fattura. I più diffusi erano quelli con le strisce colorate di rosso e verde. Si attorcigliava un filo di spago intorno ad esso e lo si lanciava su una superficie piana. Vinceva chi lo faceva girare più a lungo. Si organizzavano dei veri tornei fra i rioni. Dovevano essere lanciati con maestria perché si spaccavano molto facilmente!
Erano gli ultimi anni di
navigazione di lungo corso, mio padre contava gli anni per godere la
sua pensione. Aveva iniziato a lavorare giovanissimo già da quando, bambino,
coi suoi fratelli dovevano sostentarsi per la sussistenza all’orfanotrofio. Faceva progetti per come investire la
liquidazione. Ischia era in pieno sviluppo turistico ed economico, qualsiasi
iniziativa intrapresa avrebbe avuto successo: importante era l’impegno e la volontà
di riuscire! Purtroppo non sempre i sogni si realizzano, il fato aveva deciso
diversamente.
Era in navigazione a bordo di una
nave appartenuta ad una nota compagnia navale italiana, nei pressi di Baltimora
papà avvertì un malore e lo ricoverarono in un ospedale con la diagnosi di
tifo. Rimpatriato, i medici a Napoli affermarono che si trattava di scompenso
cardiaco e non di tifo come era stato curato. Quando sbarcò era
irriconoscibile, aveva perso una ventina di chili. Io ero adolescente, ho
ancora il ricordo vivo nella mente. Normalmente mio padre era un uomo ben
piantato ed anche il suo carattere esuberante ne faceva una persona amabile e
cordiale. I suoi amici lo definivano la nota allegra della compagnia, invece,
allora era ridotto a una larva, quasi irriconoscibile.
Mamma impose a me e alle mie
sorelle di non piangere davanti a lui per non sottolineare il suo stato di
salute. Lo shock fu terribile. Mia sorella maggiore, che era la più
consapevole, cambiò totalmente il suo atteggiamento, da giovane bella e
spensierata divenne di colpo più matura e responsabile. Mia madre faceva la
spola fra l’ospedale napoletano e Ischia fino a quando mio padre non fu
dimesso. La sorte della nostra famiglia subì una sterzata inaspettata.
Fino a quel momento eravamo fra i
pochi privilegiati ad avere uno stipendio fisso in casa abbastanza considerevole.
All’improvviso rimanemmo senza alcun sostegno economico. Per fortuna mia madre,
come tante donne dell’epoca, era molto oculata così non cademmo nella
disperazione. Col fitto estivo della casa al Capitello riuscimmo a tirare
avanti e noi ragazzi a proseguire gli studi. Rosanna trovò un posto come
commessa in una delle boutiques più esclusive di piazza Santa Restituta. Con la
sua cordialità e discrezione divenne in breve tempo indispensabile ai
proprietari. Quando lasciò l’impiego per sposarsi, la boutique dopo poco chiuse
i battenti.
Mia sorella Tita ed io trovammo
lavoro al bar dello stabilimento balneare “Capitello”. La struttura era in
legno sistemata su palafitte. Ero poco più che 14enne mentre mia sorella aveva
16 anni.
Con l’assistenza amorevole dei
gestori, riuscivamo a mandare avanti l’attività. Il lavoro non era pesante anzi
direi divertente perché eravamo in compagnia della gioventù del posto e dei giovani
villeggianti che avevano l’ombrellone nella spiaggia davanti al Fungo. Trascorrevamo
quasi tutta la giornata a lavoro. I tormentoni delle estati “Legata a un
granello di sabbia” “Sei diventata nera”, “Sapore di mare”, “Come sinfonia”
erano i nostri accompagnamenti musicali. Tutti i ragazzi venivano a gettonare
le canzoni che andavano di moda e in gruppo imparavano a ballare e studiare i
passi del nuovo ballo: l’Hully Gully con l’inconfondibile voce di
Eduardo Vianello. A causa dei salti sul pavimento di legno da parte dei
ballerini improvvisati, il piatto disco del juke box oscillava e
automaticamente il disco si incantava con la disperazione degli astanti. Il
povero tecnico proprietario del juke box era sempre presente perché al mattino
e al pomeriggio era necessaria la sua opera. Nella comitiva c’erano parecchi
ragazzi in sovrappeso che venivano presi di mira dagli altri con scherzi che li
facevano rotolare per terra.
Dopo
l’esperienza allo stabilimento Capitello durato parecchie stagioni, ottenni il
posto come cassiere al night club “Pignatiello”. Questo nuovo lavoro mi fece
toccare il cielo con le mani. Negli anni precedenti coi miei amici dovevamo
scalare le mura di confine del locale oppure arrampicarci fra gli alberi per
ammirare i cantanti che erano i più gettonati all’epoca: da
Françoise Hardy a Mina, da
Cocciante ad Aznavour, tutti passavano per il Pignatiello e altri night clubs
alla moda dell’isola d’Ischia. Io invece ero lì, alla cassa, questi miti
viventi mi passavano davanti, anzi scambiavamo persino delle battute perché
alcuni di essi percepivano una percentuale sull’incasso. Tante volte lavoravo
in tandem con la persona di fiducia dell’artista. Il lavoro era impegnativo e
duro perché si lavorava fino al mattino del giorno seguente, ma, essere in
prima fila e poter essere presente e parlare con personaggi famosi che tutto
l’inverno avevo visto in TV, mi procurava una esaltazione unica.
La sensazione
più bella era che quelle vedette
internazionali erano in fondo come te: semplici, spontanee da
non far sentire il desiderio di chiedere una foto, un autografo. Più tardi mi
son pentito di non averlo fatto durante tutta la mia carriera alberghiera. Era
come vivere in un’altra dimensione.
L’unico
cruccio era quando rientravo a casa perché mio padre molto spesso, dato il suo
stato di salute, respirava affannosamente, nemmeno la bombola d’ossigeno gli
dava sollievo. Al rientro, quatto quatto, mi svestivo e andavo a letto per non
disturbare il suo sonno leggero. Ma lui con un fil di voce mi diceva: “si
venut, com’è gliut?” (sei venuto, come è andata?) Allora gli raccontavo dei
personaggi famosi e lentamente si appisolava.
Il piacere
più grande fu quando, dopo il primo mese di lavoro, ebbi il primo stipendio: Lire
50.000!!! Da considerare che allo stabilimento balneare con mia sorella guadagnavamo
20.000 al mese, in due! Quella mattina svegliai
tutti i componenti della famiglia, presi i bigliettoni da 10.000 e li
sparpagliai sul pavimento.
Dopo tanto
patimento un momento di conforto!
La gioia
d’aver portato a casa uno stipendio così favoloso mi riempì l’animo di
soddisfazione per aver regalato a mio padre un motivo di orgoglio!
Le colline ischitane, anche le
più impervie, erano tutte terrazzate ed era molto faticoso raggiungere la cima:
nemmeno i muli riuscivano ad arrivare in quei posti. I contadini, con tenacia e
maestria, cercavano di rubare più terreno possibile alla montagna terrazzando, a
mano a mano che salivano, gli spazi proibitivi che formavano le cosiddette
“catene” fortificandole con pietre di tufo, a secco, ottenendo così dei muri di
contenimento chiamati “parracine”.
Le colline, le pendici del
monte dell’Epomeo erano sotto il controllo dei proprietari; la vite coi suoi
grappoli dorati era la regina incontrastata, mai un incendio doloso!
I massi di tufo venivano
trasformati in abitazioni e tante volte in fresche cantine, i cellai, dove si
custodiva il vino che doveva riposare lontano dai rumori e protetto come il
sonno di un bambino.
Già ai primi di settembre i
contadini cominciavano ad armeggiare nelle cantine. Data la carenza d’acqua
dolce, le botti di tutte le grandezze si portavano in riva al mare per la
normale pulizia. I contadini avevano un bel da fare. Lungo le spiagge e i moli
c’erano file di botti che venivano pulite e riempite di acqua di mare in modo
che il legno si gonfiasse e non ci fossero perdite al momento di conservare il
sacro nettare poi venivano lasciate all’aria, colme d’acqua, per parecchio
tempo. Un ruolo importante nella pulizia delle botti l’avevano i bambini che,
per la loro agilità, dovevano penetrarvi e sfregare con rami di mirto le pareti
di esse. A fine operazione, le botti belle e pulite venivano collocate nella
cantina nel loro posto abituale aspettando l’arrivo del vino novello.
Le spiagge che qualche
settimana prima erano affollate da bagnanti, barche, canotti cedevano il posto a
botti di tutte le dimensioni che venivano trasportate da muli o asini
attraverso anguste mulattiere che scendevano dalle colline del Fango o Mezzavia
fino al mare. Anche i cani, che con i loro padroni abitavano lontano dalle
spiagge, erano felici di sguazzare fra l’acqua e la sabbia rincorrendosi fra di
loro. I muli e gli asini trovavano refrigerio in un bagno rinfrescante nelle
acque davanti alla “Pretagross”, per asciugarsi si rovesciavano col dorso nella
sabbia calda riempiendo l’aria di mille disegni con le lunghe zampe.
Per noi bambini la vendemmia
era un avvenimento, una festa, si veniva coinvolti tutti: amici, parenti,
ognuno aveva una vigna di proprietà o in fitto, non c’era terreno incolto!
Con i miei cugini mi recavo
nella proprietà di mio zio Tommaso che possedeva un grosso appezzamento di
terreno che confinava con la proprietà di don Carlo Piro. La località abbastanza
pianeggiante era chiamata “Ballano”. Essa si arrampicava dolcemente con dei
terrazzi fin su in alto, a mezza altezza tra la località “Pannella” dove si trovava una enorme cantina
scavata nel tufo, a ridosso della collina. Davanti all’ingresso c’era un largo
spazio ombreggiato da un rigoglioso pergolato d’uva rossa e bionda. A
mezzogiorno si allungavano delle “tavole di ponte” appoggiate su dei tini di
legno rovesciati in modo da formare una grossa tavolata dove venivano adagiate le
vivande: una fumante pasta e fagioli con cotica di maiale, “auglie e crastaurielli”
(aguglie e costardelle) fritti, accompagnati da fettine di cipolla fresca. Insalate di pomodori appena raccolti
arricchite con patate lesse, cipolle bianche e rosse, sedano, cetrioli,
peperoni, peperoncini dolci verdi (che mangiavo solo in queste occasioni) e
abbondanti fette di pane appena sfornato dal forno che si trovava antistante la
grotta. Noi bambini bevevamo l’acqua piovana fresca della cisterna allungata
con qualche gassosa in caraffe di terracotta mentre per gli adulti era a
disposizione “saccapanna” custodita in lavatoi di muratura con pezzi di
ghiaccio.
La cantina la si raggiungeva
internamente alla proprietà attraverso irti sentieri e gradinate strette di
tufo. Per fortuna il terreno aveva anche un accesso dalla strada comunale che
da Mezzavia portava al Fango passando per la località Pannella. Per evitare gli
scomodi scalini di pietra con il carico dei tini sulle spalle, i trasportatori
preferivano inerpicarsi attraverso il sentiero pubblico formato da lunghi
scaloni per trasportare l’uva fino alla cantina. Il portone della vigna, in
quel periodo, era sempre aperto e molti passanti entravano per scambiare due
chiacchiere e fare una bevuta di “saccapanna”
trovando refrigerio lungo la stradina soleggiata che portava al Fango.
Tutt’intorno echeggiavano
canti, risate e grida festose dei partecipanti alla vendemmia, dagli anziani
della famiglia ai bambini. Noi piccoli
venivamo utilizzati per raccogliere da terra i chicchi d’uva che erano sfuggiti
agli adulti. Ogni partecipante portava con sé forbici o coltelli da tasca che
in genere servivano per tagliare il pane. La fatica per i più grandi era enorme
ma veniva addolcita dall’allegra compagnia e dal vinello.
Più tardi negli anni, coi miei
amici ormai adolescenti, anche se non abituati a simili fatiche, per
arrotondare il nostro magro bilancio ci offrivamo come trasportatori di tini
colmi di grappoli d’uva che dal vigneto trasportavamo a spalle fino alle
stradine dove c’erano i muli ad attendere il nostro prezioso carico. Il più
delle volte prestavamo la nostra opera nei terreni che si trovavano sulla
collina di Monte Vico. I sentieri per raggiungere le catene, lì, erano
sconnessi, scavati dalle piogge; era molto facile che qualcuno di noi
scivolasse con il peso che portava sulle spalle, con le risate di scherno dei
compagni. Anche questi momenti di grande fatica venivano affrontati con allegria
e il piacere di stare tutt’insieme e guadagnare qualcosa per passare le feste di Natale con qualche soldo
in tasca. A sera, dopo una lunga giornata, scendevamo attraverso un antico
passaggio che da Monte Vico portava giù alla baia di San Montano dove
sguazzavamo nelle acque termali calde del “puzzillo”.
Con l’evoluzione del turismo, negli
anni, quando i palmenti erano colmi dei preziosi grappoli d’uva, s’invitavano
turiste tedesche a “carcare” (pigiatura) l’uva concludendo la fatica in un propizio
baccanale con la complicità del vino dell’anno precedente!
Oggigiorno gli appezzamenti di
terreno dedicati alla coltura della vite si sono assottigliati notevolmente. Il
cemento ha preso il sopravvento, chi ancora cura la vigna non vinifica più, si
preferisce vendere il raccolto alle case vinicole dell’isola…i tempi cambiano!
Come il sole iniziava a essere un tantino più
clemente coi suoi dardi d’agosto, in tutti i rioni e le case di Lacco
incominciava il rito delle “bottiglie di pomodoro”.
Anche il suono delle cicale cominciava a calare
d’intensità dopo il ferragosto. Mentre le formiche, instancabili, continuavano
il loro imperterrito lavoro di accumulo di cibo, in lunghe file indiane, per
l’inverno.
Verso l’ultima decade di agosto iniziava
l’arrivo dei bastimenti al pontile di Lacco provenienti da vari punti della
Campania: da Mondragone a Pozzuoli portando sull’isola grosse quantità di merci
che servivano come riserva per il periodo invernale. Dai meloni bianchi che
venivano appesi in quadrati di rete o con funi ottenute con la rafia ai vari
tipi di legumi. C’era lo strillone che girava per tutti i rioni del paese
annunciando i differenti tipi di merce.
Camioncini arrivavano da località campane e
trasportavano l’oro rosso: il pomodoro proveniente dall’entroterra, all’epoca
orgoglio nazionale, uno dei simboli più amati ed apprezzati in tutto il mondo!
Questi mezzi portavano quintali di pomodori
rossi: il più delle volte erano i cosiddetti “San Marzano” che sull’isola non
si coltivavano perché richiedevano parecchia acqua.
Mia madre ne comperava alcune “sporte” e li
mischiava con i pomodori che acquistava da Giannina sopra al Fango. Questa
donna coltivava nel suo terreno: “e’cerasell” che erano molto più piccoli ma
più densi di succo. Mischiando le due qualità otteneva una salsa abbondante e
succosa.
“Fare le bottiglie” era un rito che si ripeteva
ogni anno in tutte le famiglie, il lavoro anche se impegnativo era divertente
perché riuniva intere famiglie. Come descritto in un altro dei miei racconti,
noi ragazzi eravamo addetti alla pulizia delle bottiglie in riva al mare,
logicamente quando il mare non era agitato.
“… Noi bambini dovevamo portare le bottiglie
vuote in riva al mare per pulirle con sabbia e “vriccilli”. Agitando il tutto
con l’acqua di mare le impurità presenti nelle bottiglie andavano via. Dove la
salsa dell’anno precedente aveva formato delle incrostazioni adoperavamo rami
di mirto. Le bottiglie erano preziose perché scarseggiavano: il più delle volte
erano bottiglie vuote che mio padre portava in grossi sacchi di juta dalle navi
quando sbarcava. Erano di colore verde scuro, rosso intenso, marrone, dalle
forme più strane, quadrate, rettangolari, allungate ma tutte robuste e portavano
scritte in tutte le lingue!”…
Il giorno precedente mia madre aveva lavato per
bene i pomodori e li metteva ad asciugare in delle ceste avvolti in un vecchio
lenzuolo assieme ai rami di basilico.
Al mattino seguente, di buon ora, iniziavano i
lavori sul terrazzo di casa o nel “ciardiniello”. Le mie sorelle si alternavano vicino alla
manovella che faceva girare, a mano, la macchinetta producendo la salsa. Era
uno spettacolo insolito ed esaltante vedere quella salsa rossa come il fuoco fuoriuscire
dai buchi. Scendeva copiosa in una bagnarola di stagno o nelle tine di
terracotta smaltate di verde, mentre i semi con le bucce proseguivano il loro
tragitto dopo la spremitura, uscendo lateralmente. Molto spesso veniva fatta un’ulteriore
passata, fino a quando non uscivano solo i semi. Questo procedimento durava ore
perché i recipienti una volta riempiti bisognava svuotarli riempiendo le
bottiglie dove c’erano già le foglie di basilico. Tutt’intorno c’era un profumo
di pomodoro e un pungente aroma di basilico e origano. Con i pomodori di scarto
veniva preparato la salsa per gli spaghetti alla “pizzaiola” per il pranzo del
giorno.
In quest’occasione i grandi bevevano vino di
“saccapanna” arricchito di fette di “percuochi”e a noi piccoli era concessa la
gassosa conservata nel ghiaccio.
Quando le bottiglie erano tutte colme, mia madre
si sedeva per terra e con le spalle appoggiate al muro procedeva alla chiusura
di esse con una macchinetta di legno. I tappi di sughero venivano immersi
nell’olio prima dell’uso e con un martello di legno si spingeva il tappo
all’interno della macchinetta per farlo entrare nel collo della bottiglia. Una
volta turate, uno spago ne completava la chiusura.
L’operazione più complicata era la bollitura
delle bottiglie che venivano adagiate nelle “caulare” di rame, ogni famiglia ne
possedeva una. Fra uno strato e l’altro delle bottiglie veniva messo un panno,
in modo che durante la bollitura dell’acqua non urtassero fra di loro.
A fine lavoro, mentre mamma avviava il fuoco
sotto la caldaia, noi ragazzi, tutti insieme, andavamo a lavarci a mare per un
bagno rinfrescante e togliere i semi e gli schizzi di salsa che si erano appiccicati
per tutto il corpo durante la giornata.
All’indomani, a fuoco spento, la soddisfazione
più grande era di estrarre dalla caldaia le bottiglie tutte intere in modo che
il lavoro del giorno prima non fosse stato vano!
Angelo è un altro dei ragazzi del rione Ortola cresciuto all’ombra del complesso Rizzoli. Lo ricordo ragazzino svolgere il ruolo di raccattapalle nei campi da tennis e minigolf. Molti dei suoi compagni, in seguito, sono diventati maestri di tennis allenando generazioni di ragazzi ischitani qualcuno dei quali approdato sul continente nei circoli di tennis più esclusivi della Capitale. Angelo, più grandicello, entra come commissioniere al Regina Isabella.Era uno dei ragazzi di portineria preferiti dal portiere d’albergo Vittorio Ragona, per il suo impegno e velocità nello svolgimento dei suoi compiti. Più tardi trovò il suo spazio come bagnino e manutentore delle piscine termali nel Grand Hotel Augusto di Lacco Ameno, posto mantenuto fino all’età della pensione. Fin qui tutto normale: tutti noi che lo conosciamo sappiamo che c’è un’altra faccia di Angelo che lo rende unico, all’avanguardia, uno che ha anticipato i tempi. Molto spesso non è stato compreso, anzi sotto sotto guardato con ironia, ma lui imperterrito è andato avanti per la sua strada.Oggi è moda, tutti abbiamo scoperto il vantaggio dell’esercizio fisico: il moto, un modo per tenersi in forma, conosciuto col nome inglese di trekking. Scegliamo percorsi meno trafficati, più panoramici, per godere i benefici della natura che ci circonda, specialmente al mattino quando l’aria è più frizzante, facendo lunghe passeggiate in pineta, nei boschi o costeggiando il mare. Tutto bello e normale anzi salutare! Una ventina d’anni fa Angelo era l’unico che percorreva ogni giorno la bellissima passeggiata Lacco – Casamicciola, a seconda della disponibilità di tempo che aveva a causa degli impegni lavorativi e familiari. Tutti lo guardavano in maniera strana e molti, fra quelli che oggi percorrono lo stesso tratto, si chiedevano con ironia il motivo che lo spingesse a correre o a camminare. Un episodio che tempo fa fece scalpore nel paese: Angelo, da solo, senza il sostegno degli altri colleghi lavoratori, scese in piazza Pontile a Lacco Ameno a fare sciopero contro il datore di lavoro, non per suo interesse ma per i diritti degli altri dipendenti rischiando il licenziamento. Qualche anno fa ha portato a termine il percorso ambito da tanti pellegrini: il cammino di Santiago partendo da Pamplona, 800 km in 20 giorni con tutte le difficoltà del caso.Lui, così minuto, è riuscito a vincere il mutamento atmosferico delle stagioni. Oggi lo vediamo percorrere, a piedi, in tutti i periodi dell’anno, d’estate o d’inverno a torso nudo, in pantaloncini il tratto che da Lacco Ameno va a Baia Sorgeto per concedersi un bagno salutare. La temperatura può salire, può scendere, Angelo munito del suo zaino, d’estate, ombrellone e sdraio il tutto caricato sulle spalle, attraversa mezza isola per trovare il suo angolo di paradiso. Lo accompagna la sua immancabile transistor che annuncia il suo arrivo o il suo ritorno a casa.In questo periodo la baia è piena di bagnanti e il suo angolo preferito è occupato da turisti occasionali. Ha detto che ritornerà quando la calma e il silenzio regnerà di nuovo in Baia Sorgeto. Lui è sempre alla ricerca di angoli incontaminati, ha trovato uno spazio, in un luogo un poco più impervio ma altrettanto bello: la piccola insenatura della Pelara dove l’acqua del mare è limpida e la serenità regna sovrana. Lo vediamo passare, a piedi, per le nostre strade dell’isola. Procede a testa alta dando un calcio a tutte le chiacchiere, le beghe che affliggono ognuno di noi, incarnando il sogno di tutti che vorrebbero scendere dall’auto e camminare a fianco a lui:Vai Angelo, vengo anch’io!